
Cavallo
Leandro
Ambregi
Dire
che Leandro Ambregi ha la scultura nel sangue - o come oggi preferibilmente
si dice, nel DNA - è fin troppo facile affermazione; da
tre generazioni almeno, con Laurino e Bruno, gli Ambregi hanno
vissuto tra marmi e pietre, e Leandro - che non ha più
di vent'anni - continua quotidianamente a respirare con voluttà
l'atmosfera rumorosa e polverosa del laboratorio. Le sue opere
hanno un'immediatezza straordinaria, s'impongono per quel che
sono, senza elucubrazioni, emanano la stessa forza dei rilievi
romanici dove tutta sa di fatica, dove la vita è lotta
continua contro il tempo, con la sua natura, contro il destino.
Sentimenti ancestrali, primitivi, che Leandro esprime non attraverso
i contenuti delle sue opere, che sembrerebbero soltanto occasioni,
bensì mediante i volumi possenti, sapientemente giocati
secondo la natura della materia che aggredisce con lo scalpello.
Da dove viene a Leandro questa medievale possanza? Non da Giuseppe
Albano, delicato modellatore, che gli fece plasmare la creta,
e forse nemmeno dal pittore Giovanni Locastro che gli fu docente
di disegno e storia dell'arte al liceo scientifico e che Leandro
confessa dovergli l'amore per il fare artistico. A prescindere
da questi che sono soltanto felici episodi del suo apprendistato
extra-laboratorio, Leandro è un autodidatta espertissimo
nelle tecniche lapidee che nell'affrontare la materia ha dovuto
solo seguire il proprio istinto al fine di soddisfare la propria
sensibilità. Diversi sono i lavori suoi esposti in luoghi
pubblici. Da segnalare in particolare il Monumento Cox e Caraviello
a Careggi quello commemorativo della Battaglia di Vallibona a
Campi Bisenzio e la Via Crucis per la chiesa del Santi Fiorentini.