
©www.zoomedia.it vanna innocenti 16 giugno
2014

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©www.zoomedia.it
vanna innocenti 16 giugno 2014

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2014
Di Lorenzo Lippi l'impresa dell'accademico della Crusca di Francesco
Ridolfi detto il Rifiorito,
del 1653.
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La mostra fa parte della
rassegna Firenze
2014. Un anno ad arte", ne riportiamo l'introduzione. "Giorgio
Vasari nelle pagine delle Vite (1568) assegnava un ruol fondativo
nella ‘rinascita’ dell’arte
moderna ai fiorentini Andrea del Sarto e fra’ Bartolomeo, affiancandoli
ai triumviri Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Eccellente e di
elevato ingegno, la loro produzione, incardinata sull’esercizio
costante del disegno, si segnalava per onestà d’invenzione
e perfetta imitazione della natura, dalla carne alla vivezza degli
affetti.
Oltre
un secolo dopo Filippo Baldinucci nelle Notizie de’ professori
del disegno (1681-1728), confermando il dettato vasariano, vedeva nella
fedeltà ai valori espressi da quei capofila di primo Cinquecento
la strategia necessaria per superare l’impasse manierista,
e al tempo stesso per istituire un linguaggio moderno, aderente
alle nuove esigenze spirituali proprie del Concilio di Trento.
In questo quadro il registro neorinascimentale di Santi di Tito e
di Jacopo da
Empoli, insistentemente sottolineato dallo storiografo, costituiva
la ragione essenziale per riconoscere a questi due maestri il ruolo
di riformatori delle arti figurative a Firenze sullo scadere del
Cinquecento.
La strenua difesa, al limite dell’autarchia, di una tradizione
fiorentina fondata sulla perfetta misura e serena espressività,
intimamente confidenziale, interessata alla resa accostante del
dato quotidiano, in una semplicità di schemi talora arcaizzante,
dalla tecnica pittorica nitida e compatta, avrebbe trovato
ulteriori paladini fino alla metà del Seicento, in particolare
con l’emblematica
personalità di Lorenzo Lippi.
Pur dichiarando apertamente
la grandezza di questi artisti, Vasari e Baldinucci non nascondevano
la
loro predilezione, l’uno per una grandeur romana, l’altro
per una libera sensibilità barocca, condizionando forse
con ciò la fortuna storiografica di questa linea e la
sua popolarità.
Così solo a partire dagli anni Venti del Novecento con
Hermann Voss, e dagli anni Cinquanta e Sessanta con
le originali intuizioni e le lucide analisi di Mina Gregori e
Fiorella Sricchia, si è cominciato
a ritessere quel sottile filo che legava i maestri del
primo Cinquecento a quelli del Seicento maturo, precisandone
il carattere di novità nella
tradizione.
La mostra punta ad illustrare questa identità dell’arte
fiorentina, attraverso un ricco e serrato contrappunto
tra pittura e scultura, articolato
in nove sezioni che raggruppano circa ottanta opere e trentacinque artisti.
Dopo una scenografica ouverture dedicata a due protagonisti
emblematici, Andrea del
Sarto e Santi di Tito (sezione 1), e dopo un omaggio al disegno dal vero
come strumento di conoscenza (sezione 2), nella prima parte
della mostra (sezioni
3-6) si potrà seguire in senso diacronico la persistenza di piacevole
chiarezza e quieta grandezza di questo corso dell’arte fiorentina,
restituendo così, accanto ai maestri fondatori, un più adeguato
ruolo ai Della Robbia e ai Sansovino, a Franciabigio, Bugiardini
e Sogliani, artisti ‘mediatori’ verso
Bronzino, Poggini, Giovanni Bandini e la più tarda
generazione di
Ciampelli, Tarchiani, Vannini e Antonio Novelli.
Nella
seconda parte (sezioni 7-9), si potrà verificare,
in un confronto diretto incentrato su tre temi (l’espressione degli
affetti, l’evidenza degli oggetti quotidiani, la nobile semplicità degli
eventi sacri), l’effettiva consistenza di questo particolare lascito
culturale.
Ne scaturisce una connotazione delle arti figurative in linea
con le nuove forme
di spiritualità variamente ispirate alla tradizione di austerità savonaroliana.
Non manca infine un’evidente consonanza con gli svolgimenti puristici
del dibattito sulla lingua, elaborati in seno all’Accademia Fiorentina
e a quella della Crusca.
La mostra offre dunque l’occasione di
sovvertire il luogo comune di una cultura civica fiorentina passatista,
disvelando i mutamenti semantici e le istanze
di novità insiti nella fedeltà all’antico dei
suoi artefici, e dunque, invertendo una celebre formula critica,
di mettere
in luce la ‘novità della
tradizione." |