Adorazione dei magi
tavola dipinta della Galleria
degli Uffizi di Firenze (Inv. 1890 n. 1594 ) fu commissionata a Leonardo
da Vinci nel 1481 dai Canonici regolari di sant’Agostino
per l’altar
maggiore della chiesa di San Donato a Scopeto, un convento che era
situato sulla collina di Bellosguardo, subito fuori Porta Romana
a Firenze.
Era
un edificio romanico che
venne però distrutto, come altre strutture oltre le mura, affinché non
servissero da ricovero alle truppe che sarebbero giunte a
Firenze per l'assedio del 1529. Alcune parti di quell’architettura
furono inserite e fanno parte della facciata della chiesa fiorentina
di San Jacopo sopr’Arno.
La pala di Leonardo non fu mai
collocatata su quell'altare, rimase incompiuta verosimilmente
a causa della partenza
del suo artefice nel 1482 per Milano.
Giorgio Vasari, nella biografia di Leonardo dell’edizione
delle Vite del 1568, dice che l’Adorazione
dei magi “era
in casa d’Amerigo Benci” (VASARI
ED. 1966-1987, IV, p. 24).
Nel 1621 l’opera è nel Casino di San Marco, fra i beni
lasciati in eredità da
Don Antonio de’ Medici.
Nel 1670, alla morte del figlio di
lui, Giulio, la pala entra nella Guardaroba medicea e di lì agli
Uffizi.
Nella seconda metà del Settecento viene
portata nella suburbana villa di Castello, per poi tornare nel
1794 nella Galleria fiorentina.
"Riflettografie
agl’infrarossi eseguite in tempi trascorsi (che consentono
alla vista d’andare oltre la superficie pittorica, per
scoprire quanto essa nasconda al di sotto) hanno palesato con
nitore di contorni la presenza di figure (oggi pressoché invisibili
a occhio nudo), rivelatrici d’una trama ch’era prima
nebulosa e su cui s’era fantasticato,
con proposte sovente financo inammissibili.
Sul primo piano della
pala si dipana l’evento della venuta
dei magi e del loro seguito nel luogo dove la stella li ha
condotti, e dove la Vergine col Bimbo si fa fulcro d’un
emiciclo d’astanti.
Il secondo piano è spartito in due
registri paralleli, in cui sono figurati
eventi all’apparenza distinti: a destra è uno
scontro drammatico di cavalli e cavalieri con uomini atterrati,
a sinistra si staglia una monumentale architettura rovinosa,
dove su due livelli si muovono molti attori.
Proprio al piano
superiore di quest’edificio le macchine hanno registrato
l’esistenza
di manovali che s’affaticano a tirar su assi di legno
e materiali da costruzione. Già di per sé questa
scoperta avrebbe dovuto additare un cambiamento iconologico
di non poco peso, giacché, se assai
frequente è la raffigurazione di rovine nelle natività di
Cristo o nell’epifanie
(la rovina attesta il crollo d’un mondo che non esisterà più dopo
l’avvento del Redentore), inusuale è invece
quella dell’edificio crollato ma in procinto d’essere
ricostruito; sicché subito
verrebbe di pensare al concetto in base al quale il Figlio
di Dio è sceso in terra non per distruggere l’antica
alleanza ma per ricostruirla perfezionata.
E però a
indagare ci s’avvedrà che l’intreccio
delle storie presuppone un disegno più complesso (A.
Natali). Trattandosi d’una vicenda neotestamentaria,
il punto di partenza saranno le Scritture.
Ma non già nel
Nuovo, bensì nell’Antico Testamento
si potrà forse rintracciare il bandolo. L’evento
della nascita del Salvatore trova – com’è noto – una
profezia diretta nelle pagine d’Isaia, al quale tuttavia
rimontano anche immagini che anticipano giustappunto l’accadimento
della manifestazione di Cristo a tutti i popoli della terra.
Nei libri del profeta, vicende di distruzione e morte si
alternano, con poesia sublime, a scene di pace, esemplificate
dalla ricostruzione del tempio di Gerusalemme. E proprio
un tempio è quello che Leonardo
intende offrire alla vista dei riguardanti.
Quell’edificio
che lui si finge, grandioso, a mo’ di
quinta, sulla sinistra, è una fedele derivazione dal
presbiterio di San Miniato al Monte, chiesa amatissima dai
fiorentini d’ogni epoca.
E dunque qualsiasi fedele che avesse visto sull’altar
maggiore di San Donato a Scopeto (se ci fosse stata collocata)
la tavola di Leonardo, avrebbe istintivamente ricollegato
a San Miniato le due rampe che salgono al piano superiore,
i tre archi di pari altezza che fra esse s’interpongono
e quella
colonna robusta che s’alza senza ormai più sostenere
alcunché.
E tutti avrebbero capito che gli operai dipinti da Leonardo
lavoravano alla ricostruzione d’un tempio.
Se poi – come potrebbe essere – anche la chiesa di San
Donato avesse del pari avuto il presbiterio rialzato, ancor più sarebbe
venuto naturale vedere nell’edificio dipinto dal Vinci l’emblema
d’un tempio.
Da una parte, dunque, il combattimento convulso alluderà alla
guerra e alle distruzioni che ne seguono, dall’altra
il tempio rovinato, ma in ricostruzione, evocherà la
pace.
Conforme, giustappunto, alle profetiche visioni d’Isaia;
alle quali si dovrà tornare
anche per darsi ragione di quanto viene recitato sulla ribalta.
Qui lo schieramento dei magi e della loro sequela intorno
a Maria col figlio s’adatta a un’impaginazione
che d’acchito
non desta interrogativi.
Ma uno sguardo più attento
avvertirà d’una
trama che merita ancora d’esser seguita.
Ci s’accorgerà, allora, che proprio dietro la
testa del piccolo Gesù, un po’ di
fianco, si leva un alberello giovane, sulle cui emergenti
radici ritorte posa una mano un adolescente efebico – un
angelo –,
che con l’indice della destra ne
indica, in alto, il fogliame rigoglioso. E a quello volge
il volto estatico un uomo del corteo dei magi, levando ad
esso, in un gesto carico di pathos, il palmo d’una
mano. Perché un
pagano, alla fine d’un lungo viaggio compiuto per adorare
il nuovo re, giunto sul luogo ambìto,
si mette a venerare la
chioma d’un albero invece di colui per il quale s’è tanto
affaticato e che ora è lì a due passi?
Il quesito
par trovare una soluzione giusto nei libri d’Isaia,
dove il ‘germoglio
che spunta dalla radice di Iesse’, il ‘virgulto’, ‘il
giovane albero’,
sono figura di Colui che verrà a salvare l’umanità.
L’albero giovane s’ergerà a
stendardo dei popoli, e tutte le nazioni accorreranno a lui,
conforme al principio – continuamente ribadito da sant’Agostino
(ovvio esegeta di riferimento per i
Canonici regolari agostiniani di San Donato a Scopeto) – secondo
cui il Natale è festa dei Giudei, mentre l’epifania è festa
di tutte le genti.
È
l’universalità della
redenzione. L’alberello di Leonardo s’alza infatti
come un vessillo nel posto in cui son pervenuti i popoli
dai quattro angoli della terra.
Concetto offerto alla meditazione anche dai profeti Geremia
e Zaccaria. E proprio nel libro di
quest’ultimo si leggeranno parole financo icastiche
per la comprensione della trama sottesa alla tavola vinciana: “Dice
il Signore degli eserciti: Ecco un uomo che si chiama Germoglio:
spunterà da sé e ricostruirà il tempio
del Signore. Sì, egli ricostruirà il
tempio del Signore” (Zc 6, 12-13).
©www.zoomedia.it - vanna innocenti - 23 settembre 2014
Leonardo da Vinci: "Adorazione dei Magi", particolare.
Si saldano così i
due piani del dramma. Le scene nel fondo trovano la loro
giustificazione sul proscenio, dov’è effigiato
il protagonista assoluto della vicenda. In carne e ossa:
nel fanciullino in collo alla Vergine; in emblema: nell’alberello
che s’immaginò Isaia.
E naturale verrà il sospetto che appunto Isaia sia
il vecchio, ritratto in piedi, che se ne sta pensoso al margine
sinistro della tavola: col volto lievemente reclinato, guarda
senza vedere; il suo occhio osserva quel che il Signore gli
trasfonde nel cuore. Non vede, dunque; ma prevede. Il vecchio
di Leonardo, panneggiato all’antica e con la testa
di filosofo greco, non sarà allora – come
astrattamente fu ipotizzato (A. Chastel) – una specie
d’incarnazione del pensiero filosofico. Dopo
quanto s’è qui congetturato, la sua assorta
attitudine parrà semmai conveniente a chi, con secoli
d’anticipo,
descrisse, per emblemata, l’evento che nella pala si
spalanca al suo cospetto.
Se si rapporta l’impaginazione
articolata concepita per l’Adorazione
dei magi di San Donato, a quella che troverà espressione
nella tavola dipinta quindici anni dopo da Filippino Lippi
proprio per portare a compimento l’allogagione lasciata
insoddisfatta da Leonardo, riuscirà facile constatare
la maggiore complessità delle riflessioni
vinciane.
Filippino, che pure fu pittore di punta e d’estro,
illustra il concetto dell’universalità della
salvezza ricorrendo a un fondo in cui si muovono da differenti
provenienze i cortei dei magi. E lo fa con un passo che ben
s’inquadra
nella tradizione fiorentina. Leonardo no. Lui scava (magari
col conforto d’un
teologo del monastero) nei concetti ardui della Scrittura;
li notomizza come per un’autopsia
e poi, per darne adeguata rappresentazione, imbocca vie formali
inusitate. Affronta cavalli impennati e cavalieri pronti
all’urto fatale, secondo un’iconografia decisamente
precorritrice della Battaglia d’Anghiari, che
gli sarà commessa a Firenze nel 1503. Affastella corpi
atteggiati in posture languide e tortili, di decisa memoria
ellenistica, conforme a una disposizione culturale che prenderà corpo
una ventina d’anni dopo. Si finge un’architettura
che solo un artefice agli esordi del Cinquecento si reputerebbe
in grado d’inventare.
Nell’Adorazione dei
magi degli Uffizi si può ravvisare
uno dei primi incunaboli (se non il primo) di quella “maniera
moderna” di cui Giorgio
Vasari parla nel proemio alla terza parte delle Vite (VASARI
ed. 1966-1987, IV, p. 8), là dove proprio a Leonardo
attribuisce il merito d’averla avviata. Volendo darsi
ragione dell’asserzione vasariana, s’è fatto
di solito ricorso alle creazioni
vinciane che appunto si datano al primo decennio del Cinquecento,
con la Battaglia di Anghiari a far da capofila.
Ma se il biografo avesse veramente pensato alle imprese di
Leonardo nella stagione della prima repubblica fiorentina,
non avrebbe espunto il suo nome, solitario, dal mazzo (pur
sceltissimo) degli altri innovatori. Nell’anno della
commissione dell’affresco
con la Battaglia, già s’erano avute prove a
Firenze – per esempio nei marmi giovanili del
Buonarroti – d’uno scatto espressivo. Se Vasari
scrive che fu Leonardo a “dare
avvio a quella maniera che noi vogliamo chiamare la moderna”,
doveva avere in mente opere di lui d’una stagione
più antica e decisamente precorritrici. Qual è l’Adorazione
dei magi. Ma qual è anche
quel suo corrispettivo formale, concentrato in un figura
isolata, ch’è il coevo
San Girolamo della Pinacoteca vaticana: vecchio
ossuto che, per la postura cui s’adatta e la fisionomia
languida che assume, par sortito a pie’ pari dalla
calca della sequela dei magi."