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Firenze

Opificio delle Pietre Dure

Approfondimento su: Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci.
Conclusa la prima fase di restauro
23 settembre 2014.


©www.zoomedia.it - vanna innocenti - 23 settembre 2014
Leonardo da Vinci (Vinci 1452 – Amboise 1519), "Adorazione dei Magi" 1481. L'immagine mostra la tavola di Leonardo durante la presentazione alla stampa della conclusione della prima fase del resturo curato dall'Opificio delle pietre dure.

Adorazione dei magi
tavola dipinta della Galleria degli Uffizi di Firenze (Inv. 1890 n. 1594 ) fu commissionata a Leonardo da Vinci nel 1481 dai Canonici regolari di sant’Agostino per l’altar maggiore della chiesa di San Donato a Scopeto, un convento che era situato sulla collina di Bellosguardo, subito fuori Porta Romana a Firenze. Era un edificio romanico che venne però distrutto, come altre strutture oltre le mura, affinché non servissero da ricovero alle truppe che sarebbero giunte a Firenze per l'assedio del 1529. Alcune parti di quell’architettura furono inserite e fanno parte della facciata della chiesa fiorentina di San Jacopo sopr’Arno.
La pala di Leonardo non fu mai collocatata su quell'altare, rimase incompiuta verosimilmente a causa della partenza del suo artefice nel 1482 per Milano.

Giorgio Vasari, nella biografia di Leonardo dell’edizione delle Vite del 1568, dice che l’Adorazione dei magi “era in casa d’Amerigo Benci” (VASARI ED. 1966-1987, IV, p. 24).

Nel 1621 l’opera è nel Casino di San Marco, fra i beni lasciati in eredità da Don Antonio de’ Medici.
Nel 1670, alla morte del figlio di lui, Giulio, la pala entra nella Guardaroba medicea e di lì agli Uffizi.
Nella seconda metà del Settecento viene portata nella suburbana villa di Castello, per poi tornare nel 1794 nella Galleria fiorentina.

"Riflettografie agl’infrarossi eseguite in tempi trascorsi (che consentono alla vista d’andare oltre la superficie pittorica, per scoprire quanto essa nasconda al di sotto) hanno palesato con nitore di contorni la presenza di figure (oggi pressoché invisibili a occhio nudo), rivelatrici d’una trama ch’era prima nebulosa e su cui s’era fantasticato, con proposte sovente financo inammissibili.

Sul primo piano della pala si dipana l’evento della venuta dei magi e del loro seguito nel luogo dove la stella li ha condotti, e dove la Vergine col Bimbo si fa fulcro d’un emiciclo d’astanti.
Il secondo piano è spartito in due registri paralleli, in cui sono figurati eventi all’apparenza distinti: a destra è uno scontro drammatico di cavalli e cavalieri con uomini atterrati, a sinistra si staglia una monumentale architettura rovinosa, dove su due livelli si muovono molti attori.
Proprio al piano superiore di quest’edificio le macchine hanno registrato l’esistenza di manovali che s’affaticano a tirar su assi di legno e materiali da costruzione. Già di per sé questa scoperta avrebbe dovuto additare un cambiamento iconologico di non poco peso, giacché, se assai frequente è la raffigurazione di rovine nelle natività di Cristo o nell’epifanie (la rovina attesta il crollo d’un mondo che non esisterà più dopo l’avvento del Redentore), inusuale è invece quella dell’edificio crollato ma in procinto d’essere ricostruito; sicché subito verrebbe di pensare al concetto in base al quale il Figlio di Dio è sceso in terra non per distruggere l’antica alleanza ma per ricostruirla perfezionata.

E però a indagare ci s’avvedrà che l’intreccio delle storie presuppone un disegno più complesso (A. Natali). Trattandosi d’una vicenda neotestamentaria, il punto di partenza saranno le Scritture.
Ma non già nel Nuovo, bensì nell’Antico Testamento si potrà forse rintracciare il bandolo. L’evento della nascita del Salvatore trova – com’è noto – una profezia diretta nelle pagine d’Isaia, al quale tuttavia rimontano anche immagini che anticipano giustappunto l’accadimento della manifestazione di Cristo a tutti i popoli della terra.

Nei libri del profeta, vicende di distruzione e morte si alternano, con poesia sublime, a scene di pace, esemplificate dalla ricostruzione del tempio di Gerusalemme. E proprio un tempio è quello che Leonardo intende offrire alla vista dei riguardanti.

Quell’edificio che lui si finge, grandioso, a mo’ di quinta, sulla sinistra, è una fedele derivazione dal presbiterio di San Miniato al Monte, chiesa amatissima dai fiorentini d’ogni epoca.
E dunque qualsiasi fedele che avesse visto sull’altar maggiore di San Donato a Scopeto (se ci fosse stata collocata) la tavola di Leonardo, avrebbe istintivamente ricollegato a San Miniato le due rampe che salgono al piano superiore, i tre archi di pari altezza che fra esse s’interpongono e quella
colonna robusta che s’alza senza ormai più sostenere alcunché. E tutti avrebbero capito che gli operai dipinti da Leonardo lavoravano alla ricostruzione d’un tempio.

Se poi – come potrebbe essere – anche la chiesa di San Donato avesse del pari avuto il presbiterio rialzato, ancor più sarebbe venuto naturale vedere nell’edificio dipinto dal Vinci l’emblema d’un tempio.
Da una parte, dunque, il combattimento convulso alluderà alla guerra e alle distruzioni che ne seguono, dall’altra il tempio rovinato, ma in ricostruzione, evocherà la pace.
Conforme, giustappunto, alle profetiche visioni d’Isaia; alle quali si dovrà tornare anche per darsi ragione di quanto viene recitato sulla ribalta. Qui lo schieramento dei magi e della loro sequela intorno a Maria col figlio s’adatta a un’impaginazione che d’acchito non desta interrogativi.

Ma uno sguardo più attento avvertirà d’una trama che merita ancora d’esser seguita.
Ci s’accorgerà, allora, che proprio dietro la testa del piccolo Gesù, un po’ di fianco, si leva un alberello giovane, sulle cui emergenti radici ritorte posa una mano un adolescente efebico – un angelo –, che con l’indice della destra ne indica, in alto, il fogliame rigoglioso. E a quello volge il volto estatico un uomo del corteo dei magi, levando ad esso, in un gesto carico di pathos, il palmo d’una mano. Perché un pagano, alla fine d’un lungo viaggio compiuto per adorare il nuovo re, giunto sul luogo ambìto, si mette a venerare la
chioma d’un albero invece di colui per il quale s’è tanto affaticato e che ora è lì a due passi?

Il quesito par trovare una soluzione giusto nei libri d’Isaia, dove il ‘germoglio che spunta dalla radice di Iesse’, il ‘virgulto’, ‘il giovane albero’, sono figura di Colui che verrà a salvare l’umanità. L’albero giovane s’ergerà a stendardo dei popoli, e tutte le nazioni accorreranno a lui, conforme al principio – continuamente ribadito da sant’Agostino (ovvio esegeta di riferimento per i
Canonici regolari agostiniani di San Donato a Scopeto) – secondo cui il Natale è festa dei Giudei, mentre l’epifania è festa di tutte le genti.
È l’universalità della redenzione. L’alberello di Leonardo s’alza infatti come un vessillo nel posto in cui son pervenuti i popoli dai quattro angoli della terra. Concetto offerto alla meditazione anche dai profeti Geremia e Zaccaria. E proprio nel libro di quest’ultimo si leggeranno parole financo icastiche per la comprensione della trama sottesa alla tavola vinciana: “Dice il Signore degli eserciti: Ecco un uomo che si chiama Germoglio: spunterà da sé e ricostruirà il tempio del Signore. Sì, egli ricostruirà il tempio del Signore” (Zc 6, 12-13).


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Leonardo da Vinci: "Adorazione dei Magi", particolare.

Si saldano così i due piani del dramma. Le scene nel fondo trovano la loro giustificazione sul proscenio, dov’è effigiato il protagonista assoluto della vicenda. In carne e ossa: nel fanciullino in collo alla Vergine; in emblema: nell’alberello che s’immaginò Isaia. E naturale verrà il sospetto che appunto Isaia sia il vecchio, ritratto in piedi, che se ne sta pensoso al margine sinistro della tavola: col volto lievemente reclinato, guarda senza vedere; il suo occhio osserva quel che il Signore gli trasfonde nel cuore. Non vede, dunque; ma prevede. Il vecchio di Leonardo, panneggiato all’antica e con la testa di filosofo greco, non sarà allora – come astrattamente fu ipotizzato (A. Chastel) – una specie d’incarnazione del pensiero filosofico. Dopo quanto s’è qui congetturato, la sua assorta attitudine parrà semmai conveniente a chi, con secoli d’anticipo, descrisse, per emblemata, l’evento che nella pala si spalanca al suo cospetto.

Se si rapporta l’impaginazione articolata concepita per l’Adorazione dei magi di San Donato, a quella che troverà espressione nella tavola dipinta quindici anni dopo da Filippino Lippi proprio per portare a compimento l’allogagione lasciata insoddisfatta da Leonardo, riuscirà facile constatare la maggiore complessità delle riflessioni vinciane.
Filippino, che pure fu pittore di punta e d’estro, illustra il concetto dell’universalità della salvezza ricorrendo a un fondo in cui si muovono da differenti provenienze i cortei dei magi. E lo fa con un passo che ben s’inquadra nella tradizione fiorentina. Leonardo no. Lui scava (magari col conforto d’un teologo del monastero) nei concetti ardui della Scrittura; li notomizza come per un’autopsia e poi, per darne adeguata rappresentazione, imbocca vie formali inusitate. Affronta cavalli impennati e cavalieri pronti all’urto fatale, secondo un’iconografia decisamente precorritrice della Battaglia d’Anghiari, che gli sarà commessa a Firenze nel 1503. Affastella corpi atteggiati in posture languide e tortili, di decisa memoria ellenistica, conforme a una disposizione culturale che prenderà corpo una ventina d’anni dopo. Si finge un’architettura che solo un artefice agli esordi del Cinquecento si reputerebbe in grado d’inventare.

Nell’Adorazione dei magi degli Uffizi si può ravvisare uno dei primi incunaboli (se non il primo) di quella “maniera moderna” di cui Giorgio Vasari parla nel proemio alla terza parte delle Vite (VASARI ed. 1966-1987, IV, p. 8), là dove proprio a Leonardo attribuisce il merito d’averla avviata. Volendo darsi ragione dell’asserzione vasariana, s’è fatto di solito ricorso alle creazioni
vinciane che appunto si datano al primo decennio del Cinquecento, con la Battaglia di Anghiari a far da capofila. Ma se il biografo avesse veramente pensato alle imprese di Leonardo nella stagione della prima repubblica fiorentina, non avrebbe espunto il suo nome, solitario, dal mazzo (pur
sceltissimo) degli altri innovatori. Nell’anno della commissione dell’affresco con la Battaglia, già s’erano avute prove a Firenze – per esempio nei marmi giovanili del Buonarroti – d’uno scatto espressivo. Se Vasari scrive che fu Leonardo a “dare avvio a quella maniera che noi vogliamo chiamare la moderna”, doveva avere in mente opere di lui d’una stagione più antica e decisamente precorritrici. Qual è l’Adorazione dei magi. Ma qual è anche quel suo corrispettivo formale, concentrato in un figura isolata, ch’è il coevo San Girolamo della Pinacoteca vaticana: vecchio ossuto che, per la postura cui s’adatta e la fisionomia languida che assume, par sortito a pie’ pari dalla calca della sequela dei magi."


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Leonardo da Vinci: "Adorazione dei Magi", particolare.

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Pagina pubblicata il ottobre 2014 - Aggiornato il 15-Lug-2016