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Firenze

Orazione del prof. Maurizio Viroli nel 60° della Liberazione di Firenze

Sessantesimo della Liberazione di Firenze nel Salone dei Cinquecento
Il prof Maurizio Viroli nelle celebrazioni del Sessantesimo della Liberazione di Firenze nel Salone dei Cinquecento ©www.zoomedia.it (v. innocenti) 2004

"Signor Sindaco, autorità civili e militari,
ringrazio la Città di Firenze per l'alto onore di avermi invitato a parlare in questo solenne anniversario della Liberazione dai tedeschi e dai fascisti l'11 Agosto 1944. È un invito che ho accettato senza esitare. A Firenze mi legano ricordi importanti: gli studi all' Università Europea, vent'anni fa, e tanti di anni di ricerche su Machiavelli. Qui in Palazzo Vecchio ho commemorato nel 1994 i cinquecento anni della nascita della Repubblica Fiorentina del 1494, e tre anni fa ho tenuto prolusione in occasione della Festa della Repubblica.
È molto difficile parlare della Liberazione di Firenze senza dire parole inutili. Quella storia l'hanno già raccontata altri in pagine che ancora commuovono.
Nell' agosto del 1944 a Firenze si combatterono due battaglie: la battaglia per Firenze, fra le artiglierie alleate schierate sui colli a sud dell'Arno e le artiglierie tedesche piazzate sulle colline di Fiesole; e la battaglia dentro Firenze, fra il popolo insorto e i nazifascisti. Si combatté dal 4 all'11 agosto attraverso le spallette dell'Arno. L'11 agosto, alle 6.15 del mattino le campane delle chiese chiamarono il popolo all'insurrezione. I combattimenti continuarono fino alla fine del mese per liberare completamente la città.
Fu una battaglia sanguinosa: centoquaranta partigiani morti in combattimento, centinaia di essi feriti, quasi ottocento cittadini inermi, in gran parte donne e bambini, uccisi dalle bombe o dai cecchini fascisti. La notte fra il 3 e il 4 agosto i tedeschi fecero saltare i ponti. Risparmiarono Ponte Vecchio ma distrussero i rioni d'accesso: Por Santa Maria, via dei Bardi, Borgo Sant'Jacopo, via Guicciardini. Firenze rischiò di essere ridotta a un cumulo di macerie.
A sessant'anni di distanza la battaglia di Firenze ci appare come un evento decisivo della rinascita italiana e come un evento che appartiene non solo alla storia d'Italia ma alla storia di tutti i popoli che amano la libertà. Alla liberazione di Firenze diedero un contributo di sangue soldati che venivano da popoli lontani, e la battaglia che i Fiorentini combatterono per le strade della loro città è una pagina che tutti i popoli possono capire, quale che sia la loro lingua. Il linguaggio della libertà attraversa i confini e vive nel tempo.
Firenze accolse i soldati dell'VIII armata come liberatori. Piero Calamandrei, nel discorso che tenne il 15 settembre 1944 in occasione della riapertura dell'Università espresse il sentimento del popolo fiorentino con parole che non hanno bisogno di commento:
" Abbiamo visto, quando siete arrivati, con quanta delicatezza fraterna, direi con quanta tenerezza vi sta a cuore il significato universale di Firenze, di questa Firenze che è vanto non della Toscana, non dell'Italia, ma del mondo intero. Nella vostra avanzata, mentre i manigoldi facevano scempio, più nefando perché militarmente inutile, dei nostri monumenti più belli, non un colpo di cannone è partito dalle linee alleate sulla nostra città. Noi vi ringraziamo per questo rispetto, per questo affetto: abbiamo compreso quante difficoltà strategiche e tattiche i vostri generali abbiano dovuto superare per riuscire a liberar Firenze così, senza sfiorarla neanche col fiato. E anche del vostro ingresso in città, così discreto e cauto, con infiltrazioni di pattuglie invece che con spettacolose sfilate, noi abbiamo compreso le ragioni tutte ispirate alla incolumità di Firenze: e ve ne siamo grati".
Quei soldati di ogni nazione che entrarono in Firenze trovarono un popolo unito: combatterono studenti, operai, popolani, professionisti, ragazzi e uomini dai capelli bianchi. Trovarono degli uomini e delle donne che avevano riscoperto la dignità della libertà, capaci di disciplina, che sapevano combattere senza abbandonarsi a vendette, a eccidi inutili, ad atti di crudeltà che pur non mancarono, anche nella guerra partigiana. Trovarono un popolo che dopo vent'anni di dittatura riscopriva l'autogoverno, con il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, con il suo Sindaco, con la sua Giunta. Fu allora che gli Inglesi, cambiarono opinione sugli Italiani e cominciarono a rispettarli, ha scritto il Tenente Dottore Spini come si legge nella carta d'identità n. 5.991.442 rilasciata dal comando dell'VIII Armata Inglese.
In quella battaglia è racchiuso a mio giudizio, lo dico senza alcuna retorica, il significato più vero e più alto della Resistenza italiana, un significato che forse abbiamo dimenticato e che invece vorrei cercare di riscoprire.
La mia convinzione è che la Resistenza italiana sia stata in primo luogo una rinascita morale.
Quando affermo che la Resistenza fu soprattutto una rinascita morale non intendo affatto diminuire l'importanza dell'aspetto militare. Non condivido la tesi di chi sostiene che la Resistenza fu dal punto di vista militare insignificante, e che per liberare l'Italia sarebbero state sufficienti le truppe alleate. L'iniziativa militare della Resistenza costrinse i tedeschi a impegnare contro i partigiani truppe e mezzi che sarebbero state invece rivolte contro gli alleati e in molti casi, come a Firenze, fu indispensabile per la liberare le città.
Ma c'è un altro dato sul quale si deve riflettere. Le ricerche degli storici hanno ormai messo davanti agli occhi di tutti, che accanto alla Resistenza partigiana ci fu la Resistenza dei soldati dell'esercito italiano, la "guerra senz'armi" com'è stato detto. Più di 600.000 soldati italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre accettarono il lager piuttosto che aderire alla repubblica di Salò. La loro fu una scelta per la patria pagata in molti casi con la vita. Scelta tanto più straordinaria perché gran parte di quei soldati erano soldati semplici, il che voleva dire che erano contadini ai quali la patria aveva dato soltanto la terza elementare e aveva poi inviato la cartolina rosa del servizio militare. Che cosa sarebbe successo se quei seicentomila soldati avessero aderito alla Repubblica di Salò, fossero stati riarmati e inviati a combattere contro gli Alleati?
Di fronte alla realtà dei fatti è difficile comprendere come si possa parlare di una Resistenza militarmente irrilevante. Èd è difficile, capire, di fronte agli stessi fatti, come si sia potuto parlare di morte della patria. Se riflettiamo con attenzione credo si debba riconoscere che fra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile del 1945 morì un modo di intendere (o modo di sentire) la patria, e rinacque un'altra e più alta idea di patria che aveva radici lontane nella nostra storia.
Che l'idea della morte della patria sia stata nient'altro che una parziale interpretazione delle vicende di quel drammatico 1943 lo dimostrano i tanti atti di eroismo compiuti da soldati e civili che nella più totale assenza di direttive e di esempi da parte delle autorità dello Stato si assunsero individualmente la responsabilità di combattere i tedeschi o rifiutarono di entrare nei ranghi della repubblica di Salò.
Molti italiani scoprirono o riscoprirono l'amore della patria proprio in quei mesi compresi fra la caduta del fascismo e l'inizio della Resistenza. Scrive Piero Calamandrei "veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica in questa frase: "si è ritrovata la patria". Ancora più eloquenti le parole di Natalia Ginzburg: "Le parole 'patria' e 'Italia'...che ci avevano tanto nauseato fra le pareti scuola perché gonfie di vuoto...d'un tratto alle nostre orecchie risultarono vere".
Altri italiani vissero l'8 settembre come morte di quell' idea di patria in cui avevano creduto e combattuto, sia che si trattasse della patria monarchica o della patria fascista. Ma la storia ha dimostrato che l'una e l'altra erano morte davvero, strette in un abbraccio che nessuno riuscì a sciogliere. Alla prova dei fatti, che è la sola prova che conta, l'idea nuova della patria che nacque nelle sofferenze tremende di quei mesi, l'idea di una patria di cittadini liberi e uguali si impose contro la vecchia. A renderla più forte furono anche le radici risorgimentali mai del tutto seccate. Morte e rinascita, dunque: poteva del resto esserci rinascita senza morte?
È stato ripetuto infinite volte che la Resistenza Italiana fu esperienza di pochi. Ora che abbiamo un quadro più fedele degli avvenimenti di quegli anni, un quadro che ci permette di vedere accanto alle formazioni partigiane vere e proprie anche i soldati che combatterono e i soldati che non aderirono, e i tanti civili che rischiarono la vita per proteggere un soldato ferito o per aiutare i partigiani, non mi sembra proprio corretto parlare di un'esperienza di pochi. Se anche fossero stati pochi, anzi, pochissimi quelli che combatterono o resistettero in qualche modo contro i tedeschi e contro i fascisti; il loro combattere e il loro resistere avrebbe forse minor valore morale? Combattere e resistere in pochi contro nemici capaci di crudeltà senza limiti è molto più difficile che combattere e resistere in molti.
Il valore di quegli uomini e di quelle donne che combatterono per la libertà non si misura a numeri. Ad essi deve andare solo ed esclusivamente il nostro affetto e la nostra gratitudine. In questa nostra commemorazione, e in ogni commemorazione della Resistenza, il primo pensiero deve andare a loro e soltanto a loro. Chi è morto combattendo dalla parte sbagliata, chi ha combattuto dalla parte di un regime che saputo perpetrare le più ripugnanti violazioni della dignità dell'uomo, consapevole o inconsapevole che fosse, merita pietà; ma la commemorazione spetta solo a chi ha dato la vita perché noi fossimo liberi.
"Senza cattiveria verso alcuno, con pietà per tutti": sono le parole che Abraham Lincoln pronunciò all'indomani di una guerra civile ancora più spaventosa e devastante di quella che l'Italia visse fra il 1943 e il 1945. Voleva dire che chi aveva combattuto per la causa giusta meritava la commemorazione, perché essi, con il loro sacrificio avevano reso possibile la rinascita dell'America nella libertà, "a new birth in freedom"; gli altri meritavano la pietà, nessuno la cattiveria. Perché non sappiamo accettare una verità così semplice e degna?
Quando commemoriamo non siamo noi che dobbiamo giudicare i morti i della Resistenza. Sono loro che giudicano noi. Chiunque abbia letto le ultime lettere dei condannati a morte sa che tutti quei martiri vissero la loro fine come l'inizio di un tempo nuovo che altri dopo di loro avrebbero vissuto. Commemorare nel significato vero del termine vuol dire riconoscere e capire le ragioni del loro sacrificio, farle nostre, accettare un impegno e in questo modo fare sì che essi vivano con noi. Non c'è vera commemorazione senza impegno sincero a far vivere un principio morale e la morale esige, per essere seria, un confine netto fra il giusto e l'ingiusto.
Chi ci chiede di ricordare nello stesso modo chi è morto per la libertà e chi è morto combattendo contro la libertà ci chiede in realtà di diventare moralmente poveri. Chi esprime fastidio verso la nostra Resistenza, chi invita a dimenticarla come un peso ingombrante del passato vuole seccare le radici della nostra vita democratica; non offende i morti, offende noi in quanto cittadini e in quanto esseri umani. Non dobbiamo affatto abbandonare le commemorazioni; dobbiamo al contrario imparare a ricordare, a celebrare, a capire il passato, a sentirci parte di una storia che altri hanno iniziato e che noi abbiamo il dovere di continuare.
Ricordavo all'inizio che la nostra Resistenza è stata in primo luogo rinascita morale. Rinascere moralmente vuol dire tornare ad essere vivi nell'animo. Un popolo rinasce quando si emancipa dalla morte morale della servitù, e diventa libero con la lotta e con il sacrificio.
L'emancipazione dal fascismo poteva e doveva essere in primo luogo un'emancipazione delle coscienze perché il fascismo, come ogni regime totalitario, non volle soltanto dominare le azioni con la paura; volle penetrare le coscienza, e con molti, e per anni, ci riuscì. Non voleva soltanto farsi ubbidire, voleva che gli Italiani provassero devozione per il Duce, si riconoscessero in lui, lo amassero e lo venerassero come un Dio onnipotente. Quella forma di dominio entrava dentro. Per rinascere bisognava strapparsela dall'anima con uno sforzo di emancipazione morale, interiore.
In quanto rinascita morale nella lotta per la libertà, la Resistenza si collegò davvero, per ragioni profonde, al Risorgimento. Ciò che rinacque nel Risorgimento non fu una nazione italiana o uno stato italiano. Né l'una né l'altro erano mai esistiti prima. Rinacque negli Italiani l'amore della libertà che secoli di dominio straniero, di dominio di re e principi e di cattiva religione avevano ucciso. Rinacque il bisogno morale di vivere liberi; rinacque l'amore della patria nel suo significato più vero.
Lo stesso avvenne nella Resistenza. Ma le radici della capacità degli Italiani di rinascere moralmente dalla servitù in cui caddero a causa di antichi mali, sono ancora più lontane: sono in quel Rinascimento che ebbe qui a Firenze le sue espressioni politiche, intellettuali e artistiche più alte. Rinascimento non fu soltanto rinascita delle lettere e delle arti; fu rinascita della volontà di vivere come uomini e dunque di vivere liberi e di dar vita a libere istituzioni politiche. Non si intende il vero significato della nostra Resistenza se non sappiamo collegarla al nostro Risorgimento e al nostro Rinascimento.
Se interpretiamo la Resistenza come l'ultima, per ora, espressione della capacità di italiana di rinascere dalla morte morale del vivere servo, possiamo intenderne il vero significato. Non dobbiamo avere paura delle parole: la Resistenza è stata un'esperienza profondamente religiosa. Non religiosa perché chi combatté e diede la vita credeva nel Dio cristiano o nel Dio ebreo. Molti ci credevano, molti altri no . Fu un'esperienza profondamente religiosa perché fu sostenuta da una fede profonda nell'uomo e nella sua capacità di vivere libero, perché fu volontà di vivere e morire per un ideale.
Questa semplice verità noi l'abbiamo dimenticata, ma chi capì il valore della Resistenza, come Piero Calamandrei lo vide bene. Sarebbe assurdo negare che uno dei fondamenti della Resistenza è stata la lotta sociale, e accanto alla lotta sociale, l'amore della patria e il senso del dovere militare; e sarebbe altrettanto assurdo negare l'importanza dell'ossatura organizzativa che i partiti antifascisti crearono e mantennero viva nella clandestinità e del lavoro di propaganda che essi svolsero. "Ma, scriveva Calamandrei, neppure il carattere religioso e morale, prima che sociale e politico, della Resistenza, si potrebbe negare". Religione nel senso di "serietà della vita, impegno per i valori morali, coerenza tra il pensiero e l'azione". Tornano alla mente le parole di Mazzini: "Io non conosco, parlando storicamente, una sola conquista dello spirito umano, un solo passo importante mosso sulla via di perfezionamento della società umana, che non abbia radici in una forte credenza religiosa". L'essenza d'ogni religione sta nella potenza di "costringere gli uomini a tradurre in fatti il pensiero, ad armonizzare la vita pratica col concetto morale".
Per riscoprire il significato religioso della Resistenza ho scelto le parole di un laico come Calamandrei. Se ascoltiamo le parole di un uomo di fede cristiana che ha partecipato alla Resistenza, quel significato diventa ancora più chiaro.
Sono parole che Giorgio Spini ha pronunciato il 25 aprile passato alla presenza del Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi.
" Una sera, nell'ultimo inverno di guerra, stavo tornando fradicio di pioggia e intirizzito dal freddo, nelle retrovie. Ero stanco da morire, stanco di arrancare nella mota, ma ancora più stanco di quella guerra, che pareva non finisse mai, di tutta quella tristezza e tutti quegli orrori. Nel buio, da una casa sforacchiata dalle cannonate, con i buchi tappati alla meglio con teli da tenda, sentii arrivare il canto di un inno evangelico a me ben noto. Scostai un telo da tenda, entrai e mi trovai in mezzo a una cerchia di soldati inglesi, riunita per un culto. Dopo l'inno venne una preghiera. Era una preghiera a Dio, anche per i nemici tedeschi che avevano di fronte....Quella preghiera era la prova che la malvagità satanica della guerra non poteva trionfare della buona novella di amore di Gesù. Si ha ogni diritto di tradurre questo in termini del tutto laici...Non credo che il Signore si sdegni con chi lo chiama con un nome diverso da quello di Gesù . Ma io, in quella notte triste di guerra, ho sentito dentro di me levarsi l'antico inno dei martiri Christus vincit, Christus regnat. E nulla e nessuno potrà più svellere quell'inno dal profondo della mia esistenza"
Per questo suo valore religioso e morale, la Resistenza non appartiene ad alcun partito e ad alcuna chiesa. È al di sopra dei partiti e delle chiese. Appartiene alla dolorosa storia della libertà italiana che fece i suoi primi passi, agli albori dell'età moderna, proprio qui a Firenze. Dimenticarla vuol dire dimenticare il dovere di vivere liberi."

 

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Pagina pubblicata il 03-09-2004 - Aggiornato il 04-Ago-2009