27 Gennaio 2009
Il testo della prolusione tenuta in apertura del Consiglio Comunale
di Firenze dalla professoressa Marta Baiardi in occasione della
Giornata
della Memoria 2009, che celebra il ricordo della liberazione
del campo di concentramento di Auschwitz, in tutto il mondo.
"Signor sindaco, signore e signori consiglieri, signor presidente del consiglio,
porgo il mio saluto e il mio sentito ringraziamento a tutti voi per avermi
invitata a questa significativa sessione dei vostri lavori, per commemorare,
in occasione del Giorno della Memoria, la tragedia storica delle deportazioni.
Mi consentirete, prima di entrare nel merito, di porgervi anche il saluto
cordiale dell'Istituto
Storico della Resistenza in Toscana di Firenze,
presso cui da alcuni anni lavoro come insegnante e studiosa. In particolare,
vi porto i saluti del nostro presidente, professor Ivano Tognarini e del
consiglio direttivo. Mi pregano di confermare in questa solenne occasione,
a voi e alla cittadinanza fiorentina, tutto il nostro impegno, diretto
ad una produzione di cultura storica che non si configuri né come
un patrimonio di verità già delineate né come un baluardo
di tutela identitaria, ma rappresenti invece uno strumento di conoscenza
del passato, basato sui rigorosi metodi della storiografia, in grado di
promuovere confronti ad ampio raggio e favorire la costruzione di una cittadinanza
democratica consapevole.
Il tema di cui oggi ci occupiamo, «lo sterminio e le persecuzioni
del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi
nazisti», - così recita la legge istitutiva del Giorno della
memoria - riveste una centralità tutta particolare nella coscienza
del mondo occidentale, che riguarda, anche da noi in Italia, non solo la
ricerca storica o il mondo della scuola, ma la società civile
nel suo complesso.
E' proprio questo aspetto di valore condiviso indiscutibile di civiltà che
mi preme qui sottolineare e che rappresenta, a mio parere, l'autentico
spirito di quella legge.
Il 27 gennaio, come sapete, commemora l'apertura dei cancelli di Auschwitz,
avvenuta appunto il 27 gennaio del 1945 ad opera delle truppe sovietiche
in avanzata, diversi mesi prima dunque della fine di una guerra sciagurata,
combattuta purtroppo fino all'8 settembre 1943 anche dall'Italia fascista
a fianco della Germania hitleriana, guerra che si trascinò in
Europa fino ai primi di maggio e in oriente fino all'agosto 1945 e che
fece circa
cinquanta milioni di morti in tutto il mondo.
Il 27 Gennaio, se da un lato ricorda solennemente le vittime inermi della
violenza nazista e invita a conoscere e a serbare memoria, come recita
l'articolo 2 della legge, di quanto accaduto nei campi nazisti «al
popolo ebraico, ai deportati militari e politici italiani», d'altro
canto proprio questo giorno non appartiene solo alle vittime; non ha
natura parziale, ma riguarda e coinvolge tutti noi, noi venuti dopo e
le generazioni
future, in Europa e nel mondo.
Il senso di questa commemorazione interessa l'umanità intera, il
senso stesso dell'umanità.
Ad essere "feriti", ad Auschwitz, non furono solo gli ebrei "passati
per il camino", i rom e i sinti sterminati, i dissidenti politici
schiavizzati ed uccisi, gli omosessuali, i Testimoni di Geova e tutte quelle
categorie che, nell'ingegneria sociale nazista, non avevano diritto di
fare parte della "comunità" ariana degli Herrenmenschen
(gli uomini signori) e che, a causa di ciò, meritavano l'eliminazione
o la schiavizzazione. Ad essere "ferito" ad Auschwitz fu lo stesso
senso di appartenenza al nostro comune destino di "umani", così come
Primo Levi ci ricorda fin dal titolo della sua prima opera sul lager con
l'angosciosa questione "se questo è un uomo".
"
Se questo è un uomo", libro indispensabile di testimonianza
e di riflessione sull'esperienza concentrazionaria, ragiona (e fa ragionare),
tra l'altro, proprio sulla natura di questo processo di feroce disumanizzazione,
messo in atto nei lager nazisti contro le vittime a partire dalla disumanità degli
esecutori dello sterminio.
Vorrei qui ricordare un episodio molto noto di "Se questo e un uomo" ma
emblematico per capire come funzionava la mentalità dei persecutori,
anche quando, come in questo caso, non erano particolarmente accecati
da odio e sadismo.
Vogliate accogliere questa citazione anche come un omaggio
a Primo Levi, di cui quest'anno ricorre il novantesimo anniversario della
nascita, che
avvenne infatti a Torino il 31 luglio 1919.
L'antefatto. Levi era stato arrestato come partigiano a Brusson in Val
d'Aosta il 13 dicembre 1943 da italiani appartenenti alla Milizia fascista.
Dichiaratosi ebreo, era stato deportato ad Auschwitz alla fine del febbraio
successivo, e lì subito utilizzato in squadre di lavoro all'aperto,
dove sarebbe durato assai poco (il periodo medio di vita del prigioniero,
l'Häftling di Auschwitz, era di circa tre mesi).
Levi era quasi allo stremo delle forze, quando gli si offrì un'inaspettata
occasione.
Le SS cercavano dei chimici per la fabbrica di Buna-Monowitz e Levi era
un chimico, laureato due anni prima all'Università di Torino. Si
fece avanti e fu portato a fare un esame con pochi altri candidati. Un
esame vero e proprio davanti ai tecnici "ariani" del Reparto
Polimerizzazione.
Levi ci descrive i prigionieri-candidati, tra cui anche lui si trova:
sono affamati; si reggono in piedi a stento; hanno «le facce vuote»,
i «crani tosati»; indossano abiti di cui si vergognano e sanno
di puzzare. Sperano di non aver bisogno di soffiarsi il naso, davanti a «qualche
biondo Ario-Doktor», perché l'Häftling non possiede
neppure il fazzoletto.
Levi è chiamato per ultimo. Davanti all'esaminatore, il Doktor
Pannwitz, si sente come Edipo davanti alla Sfinge.
«
Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso
come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente dietro una
complicata scrivania. Io, Häftling 174517, sto in piedi nel suo studio,
che è un vero studio, lucido pulito e ordinato, e mi pare che lascerei
una macchia sporca dovunque dovessi toccare. Quando ebbe finito di scrivere,
alzò gli occhi e mi guardò. Da quel giorno, io ho pensato
al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale
fosse il suo intimo funzionamento di uomo (...).
Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi
spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso
la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi,
avrei anche spiegato l'essenza della grande follia della terza Germania.
(...)
Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani
coltivate, diceva: "Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente
opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che
non contenga qualche elemento utilizzabile"?».
E Levi conteneva davvero qualcosa di "utilizzabile" da parte
dei nazisti, infatti passò l'esame di chimica ed entrò così in
una squadra di lavoro meno sottoposta ai rigori dell'inverno e della fame.
Fu sicuramente una delle ragioni per cui si salvò.
Ma quello stesso giorno dell'esame, di ritorno alla propria baracca,
scortato dal rozzo kapò Alex subì un'altra lezione di disumanità.
Attraversando una spiazzo, il kapò Alex, per scansare un cavo, lo
afferrò con la mano. Ma era pieno di grasso e si sporcò.
«
Ecco [Alex ora] si guarda la mano nera di grasso viscido. Frattanto io
l'ho raggiunto: senza odio e senza scherno, Alex strofina la mano sulla
mia spalla, il palmo e il dorso, per nettarla, e (...) alla stregua di
questo suo atto io oggi lo giudico, lui e Pannwitz e gli innumerevoli che
furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e dovunque».
Lo stolido e rozzo kapò Alex, l'«innocente bruto», non
avverte affatto la natura disumana del suo gesto - pulirsi addosso ad un
altro, come se questi fosse uno straccio- ma non la avverte neppure il
colto Doktor Pannwitz, quando guarda il coetaneo dottor Levi come un "sottouomo".
Pannwitz... Che pure tante cose poteva avere in comune con Primo Levi:
l'educazione borghese, l'amore per la scienza, gli studi di chimica organica,
la poesia, la musica, la cultura occidentale.
Eppure la cultura occidentale non aveva saputo né potuto opporsi
ed impedire questa bieca metamorfosi tanto del Doktor Pannwitz, quanto
dell'Europa intera, di quella parte almeno di Europa conquistata dall'ideologia
del nazismo, dai suoi sogni di dominio e di fondazione di un Nuovo ordine
europeo, basato sulla supremazia razziale "ariana" del Reich
tedesco e dei suoi alleati.
E' dunque questa l'interrogazione di carattere universale suscitata da
Auschwitz a proposito della natura umana, capace allora - e dunque capace
tout court - attraverso il dominio degli uni sugli altri, di rendere
cose gli esseri umani, di condurre programmaticamente altri esseri umani
al
di fuori della compagine della propria specie, per essere sfruttati senza
pietà, schiavizzati, sterminati, in nome di finalità politiche
tanto condivise e diffuse nella prima metà del secolo scorso,
quanto aberranti.
In questo senso, giova forse ricordare, proprio all'interno del contesto
istituzionale del Comune di Firenze, alcune vicende che hanno riguardato
la nostra città, che purtroppo non rimase fuori dal cono d'ombra
dell'olocausto.
Anche gli ebrei residenti a Firenze - italiani e stranieri
-, vissero dapprima gli anni della "persecuzione dei diritti",
a partire da quel fatidico 1938 che vide la promulgazione delle leggi "razziali" in
Italia. A un anno dalla legislazione razzista varata nelle colonie dell'Impero,
il regime fascista, allineandosi con il Reich hitleriano, aveva esteso
il sistema di apartheid alla popolazione ebraica della penisola.
Queste leggi, varate "per la difesa della razza italiana",
furono improntate ad un radicale antisemitismo biologico; e non ebbero,
ahimè,
come oggi risulta dimostrato ampiamente dalla ricerca storica, un'applicazione
né blanda né irrilevante, compreso nella nostra regione.
Al contrario colpirono la comunità ebraica in profondità e
in modo capillare, con un cumulo di divieti in grado di ledere ogni
aspetto della vita civile, professionale, culturale di ciascuno. E
purtroppo -ma
giova ricordarlo- tutto ciò avvenne in un clima di indifferenza
e di passività da parte della maggioranza della popolazione.
Con
l'8 settembre 1943, all'annuncio dell'armistizio italiano con la
Gran Bretagna e gli Stati Uniti, cominciò, come sappiamo, per la
popolazione civile nel suo complesso il periodo più drammatico
e doloroso della guerra. Ma per gli ebrei residenti sul territorio
nazionale sottoposto
all'occupazione tedesca e all'amministrazione della Rsi, ebbe inizio
il periodo più violento e feroce della loro millenaria storia
nel nostro paese: la "persecuzione delle vite", vale a dire
il sistematico rastrellamento di ognuno di loro, donne, vecchi e bambini
compresi.
«
Famiglie intere», come recitava la circolare del questore Manna
di Firenze del dicembre 1943, raccomandando alle forse dell'ordine gli
arresti.
Famiglie intere da catturare e espropriare interamente dei loro beni.
Dichiarati "stranieri e nemici" dalla Carta di Verona della
Rsi, gli ebrei anche nella nostra città vennero braccati,
arrestati, incarcerati, internati nei campi di transito e poi infine
deportati, prevalentemente
verso il campo di sterminio di Auschwitz. A Firenze la "persecuzione
delle vite" durò undici mesi, a partire da quella mattina
dell'11 settembre 1943 in cui i tedeschi cominciarono ad occupare
la città.
In città e in provincia, la caccia all'uomo scatenata contro gli
ebrei portò alla deportazione di centinaia di persone. Di trecentoundici
di loro conosciamo l'identità (talvolta solo il nome). Ma siamo
sicuri che non furono presi solo questi trecentoundici. Dei molti altri
razziati e deportati - soprattutto ebrei stranieri allora a Firenze in
transito o rifugiati - si è persa per ora ogni traccia, anche il
nome e sarà molto difficile averne un elenco davvero completo.
Di queste trecentoundici persone deportate da Firenze accertate,
solo in quindici -otto donne e sette uomini- tornarono indietro.
Fra loro
credo
che oggi uno solo sia ancora vivente (Nedo Fiano). Ventisette dei
trecentoundici deportati da Firenze erano i bambini, nessun superstite.
La più piccola
si chiamava Fiorella Calò ed era figlia di una famiglia povera
di venditori ambulanti, sfollati e catturati tutti al Ferrone. Fiorella
Calò era
nata il 1° settembre 1943. Quando fu "arrestata" insieme
con tutta la sua famiglia, il 24 gennaio 1944 da italiani, aveva
dunque soltanto poco più di quattro mesi.
Queste le vittime.
Ma chi erano i persecutori?
Nella nostra città, come
altrove, gli esecutori della soluzione finale furono molti: innanzitutto
gli occupanti tedeschi, che agirono fin
da subito secondo le modalità già collaudate nei
territori dell'Europa occupata: ampie razzie, concentramento
ed organizzazione
dei trasporti per lo sterminio.
Va ricordato a questo proposito che i trasporti dall'Italia
non riguardarono solo gli ebrei, ma anche i deportati politici,
che
furono circa trentamila,
diretti prevalentemente a Dachau e Mauthausen, e che tuttavia
dipendevano da una struttura burocratica diversa rispetto agli
ebrei.
In ogni caso a Firenze furono i tedeschi infatti a dare il
via alle razzie contro gli ebrei nell'autunno 1943, giovandosi
tuttavia,
già in
questa fase iniziale, della significativa partecipazione di formazioni
militari italiane del rinato fascismo repubblicano fiorentino.
In particolare si distinse per questo aspetto il Reparto Servizi
Speciali della 92esima legione della GNR, meglio noto come "Banda Carità" dal
nome del suo fondatore, Mario Carità, che alla guerra contro la
Resistenza organizzata, affiancò un notevole dinamismo, pur meno
noto, anche nella caccia agli ebrei, negli arresti e nelle razzie dei
loro beni.
In questa prima fase reparti tedeschi e militi della formazione
di Carità,
oltre che nella Sinagoga, in altri locali della comunità e nelle
case, fecero irruzione in alcuni conventi in città e lì rastrellarono
gli ebrei (e le ebree) che vi avevano trovato rifugio.
Particolarmente feroce, fu la razzia al Convento del Carmine,
che nascondeva donne ebree con i loro figli piccoli, mentre
i mariti
e i figli più grandi
erano stati smistati in alte strutture ecclesiastiche di soccorso. La razzia
del Carmine iniziò nella notte fra il 26 e il 27 novembre 1943.
Il convento fu praticamente trasformato in un campo di transito, perché tedeschi
e militi italiani vi tennero le donne arrestate per quattro giorni, prigioniere
con i loro figli.
Mentre i tedeschi si impadronivano dei beni e compilavano le
liste necessarie ad un ordinato trasporto, ai militi italiani
fu affidata
la custodia
delle prigioniere e, duole dirlo, questi infierirono sulle
vittime con ogni sorta
di sopruso e di violenza, incluse quelle sessuali. Nel nostro
lavoro di ricerca, abbiamo ritrovato una parte di quelle liste
compilate
dai tedeschi.
Ebbene è abbastanza impressionante constatare che vi compaiono solo
i nomi delle donne ebree arrestate. I nomi dei bambini, i loro figli, non
ci sono, non compaiono per niente, già irrilevanti e resi invisibili
alla contabilità dello sterminio prima ancora di essere realmente
uccisi.
Ma il protagonista più significativo e caratteristico delle persecuzioni
antiebraiche nella nostra città fu l'Ufficio affari ebraici, che
era un organo della prefettura repubblicana. Dalla fine di dicembre 1943,
ebbe sede al numero 26 di via Cavour (oggi c'è il Consiglio regionale
toscano), allora era una proprietà requisita all'avvocato ebreo
Bettino Errera. Di quell'antico proprietario sopravvive una minuscola
targa sul campanello del primo piano.
L'Ufficio affari ebraici operò a Firenze su larga scala e con poteri
assai ampi, sia sul piano delle razzie patrimoniali che per gli arresti,
realizzando un efficace controllo capillare sul territorio, soprattutto
a causa della sinergia che seppe realizzare, tanto con la "Banda Carità" quanto
con la questura di Firenze. Fu proprio questo elemento a renderlo così pericoloso
ed efficace nelle persecuzioni.
Nel nostro territorio infatti il fascismo repubblicano aveva
assegnato una centralità tutta particolare alle persecuzioni antiebraiche
e l'impegno delle istituzioni della Rsi in questa direzione fu intenso
e continuativo in quegli undici mesi di governo.
Insieme alla violenza dei carnefici dei corpi polizieschi,
emerge dalle fonti anche un gran lavorio burocratico, necessario
alle
diverse fasi
della persecuzione: liste, verbali di confisca, di arresto,
gestione delle delazioni,
contabilità dei beni incassati, rapporti con banche, con altri
uffici: la Sovrintendenza ai beni culturali, lo stesso Comune con l'Ufficio
affari
di guerra addetto alle requisizioni dei beni ebraici, ecc.
Si erano creati apparati istituzionali, uffici, corpi polizieschi
e si era formato anche un personale politico di zelanti esecutori
che
potevano
anche diventare feroci e privi di ma anche di scrupoli.
Nel frattempo nel contesto sociale, malgrado il controllo ramificato
e terroristico messo in atto da Rsi e occupanti, si erano aperti
comunque degli spazi di diffusa insubordinazione, reti clandestine,
resistenze
alle
autorità di gradazioni diverse, e solo grazie a questi spazi la
maggioranza degli ebrei fiorentini poterono sopravvivere e salvarsi.
Scamparono infatti quelli che riuscirono a sparire o fuggendo
lontano o rendendosi invisibili, ma rimanendo comunque inseriti
in qualche
modo in
reti di relazioni in opposizione ai poteri costituiti e in
grado di esercitare le più differenti forme di protezione.
Fuori da questi ambiti, per chi rimase "visibile" agli
occhiuti predatori del potere e ai loro collaboratori, non
ci fu nessuna salvezza.
Per noi oggi, a distanza di più di
sessant'anni da quei fatti, il Giorno della Memoria rappresenta
dunque anche una buona occasione
per integrare
felicemente il momento della celebrazione con la conoscenza
storica, onde evitare le secche di un ritualismo senza significati
duraturi, e
favorire
invece la crescita di un sapere critico nell'opinione pubblica
e soprattutto nelle nuove generazioni.
Sarebbe riduttivo infatti che il Giorno della memoria diventasse
solo un risarcimento per le vittime, senza tentare la comprensione
di quello
che
accadde: «cause, modi, dinamiche politiche» e paradigmi culturali
che a quelle persecuzioni e allo sterminio fecero da supporto.
La Shoah difatti è di per sé un sapere complesso e non va
postulata come un evento misterioso ed ineffabile, poco definito e opaco.
Non è stata «un'entità metafisica (...) né [una]
catastrofe annunciata come gli uragani».
Al contrario ha rappresentato il prodotto di scelte umane precise
per quanto abnormi: scelte di tipo politico, militare, culturale.
«
[La Shoah] ha preso forma nel contesto della seconda guerra mondiale (...)
da un intreccio complesso di radicalizzazione ideologica, pianificazione
militare, innovazione tecnologica e improvvisazione strategica e pulsioni
sterminatrici».
Dunque la comprensione della Shoah chiama in causa tutti questi
piani. La storiografia ha esplorato da alcuni decenni questo
intreccio complesso,
che rese possibile un potenziale distruttivo così elevato nel cuore
della nostra civilissima Europa. In questo senso la ferita di Auschwitz
ha rappresentato per l'Occidente un «evento spartiacque del mondo
moderno» e una inequivocabile «rottura di civiltà».
Noi dunque celebriamo con il Giorno della Memoria la comprensione come
una sorta di riparazione per quella rottura, ma realizziamo nel contempo
anche un investimento sul futuro, principalmente rivolto ai nostri giovani:
una presa di coscienza e un monito affinché quella storia possa
essere conosciuta e riconosciuta, laddove torni a ripetersi.
Occorre tuttavia sapere che non si tratta di un messaggio facile
da trasmettere, soprattutto se lo si vuole fondare, come è bene
fare, non tanto su effimere suggestioni emotive, quanto su
conoscenze rigorose e approfondite,
che suscitino riflessioni, più che facili cordogli,
consapevolezze, più che empatie irriflesse.
Ma mi devo
ora avviare a concludere.
Prima però vorrei ancora qui ricordare - come una nota di speranza
- un'altra ricorrenza, ancora una data.
Lo stesso 27 gennaio, che nel 1945 ha spalancato i cancelli
di Auschwitz su quegli orrori che purtroppo racchiudevano,
commemora
per la storia
della cultura (e per la musica in particolare) un anniversario
importante e fausto.
Il 27 gennaio del 1756 nasceva a Salisburgo (in Austria, ma
da famiglia tedesca, di Augusta) Wolfgang Amadeus Mozart, grande
erede ed innovatore
della tradizione musicale tedesca. Pur morto prematuramente
a
trentasei anni, Mozart fu autore di tante meraviglie (concerti,
serenate,
opere, sinfonie), centinaia di capolavori di ogni tipo che
tutti ricordiamo
e riconosciamo come elementi imprescindibili della nostra civiltà,
davvero in grado di rallegrare il passaggio degli uomini sulla
terra, come cantano gli iniziati nel finale del Flauto magico: «Grazie
alla potenza della musica camminiamo/ lieti attraverso la notte
tetra della morte».
Sarebbe bello riuscire a comunicare
ai giovani - proprio attraverso il Giorno della Memoria - che
conoscere e ricordare errori
ed orrori del
passato significa in sostanza potere operare una scelta responsabile,
facendo appello
alla parte nobile e salvifica della nostra civiltà -
a Mozart, per intenderci - senza lasciare spazio a quelle istanze
distruttive ed
autodistruttive
che pure hanno segnato la nostra storia del novecento.
