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FIRENZE

Mostre a Firenze: "Ghirlandaio.
Una famiglia di pittori del Rinascimento tra Firenze e Scandicci"
Familia et civitas: i Ghirlandaio e Scandicci.
Saggio di Annamaria Bernacchioni


©www.zoomedia.it vanna innocenti 19 novembre 2010
Nell'immagine una sala della mostra: "Ghirlandaio. Una famiglia di pittori del Rinascimento tra Firenze e Scandicci" nel Castello dell'Acciaiolo di Scandicci a Firenze. In primo piano, sulla destra della foto si vede l'opera di David Ghirlandaio "Crocifissione con la Vergine e i santi Giovanni Evangelista, Maddalena, Egidio e Bernardo di Chiaravalle" dipinta tra il 1489 e il 1490, fu commissionato dall'Ospedale di Santa Maria Nuova per le Oblate, l'affresco staccato proviene alla mostra dal Cenacolo di Andrea del Sarto dov'è conservato.

Familia et civitas: i Ghirlandaio e Scandicci
Saggio di Annamaria Bernacchioni

"I maestri protagonisti del Rinascimento artistico fiorentino si caratterizzano per la loro opera, per la loro psicologia e per il diverso modo di porsi nei confronti della società e della cultura del proprio tempo.

Seguendo consuete definizioni di matrice vasariana, possiamo ricordare Beato Angelico come l’artista devoto che aspira alla massima perfezione, diversamente dalla sua antitesi Filippo Lippi, creativo e al tempo stesso libertino, isolato e ipocondriaco invece Paolo Uccello, vittima delle sue elucubrazioni prospettiche, ancor più complicati e fecondi i geni Michelangelo e Leonardo: il primo travagliato dal pensiero filosofico e religioso, l’altro, vivace sperimentatore sempre pronto alla sfida con la natura e la comprensione delle sue regole.

Quando si affronta un pittore come Domenico Ghirlandaio ci si allontana immediatamente dalle complesse implicazioni intellettuali di questi artefici e si vede in lui il principale “illustratore” dell’epoca di Lorenzo il Magnifico, colui che meglio di ogni altro seppe ricostruire gli spazi della scena rinascimentale, descrivendo con dovizia di particolari gli attori protagonisti di quella civiltà. Fu un abile professionista, in cui arte e tecnica si fusero mirabilmente con l’attitudine imprenditoriale, attraverso l’operosità di una ben strutturata bottega a carattere familiare, dove ciascuno svolgeva i propri compiti, sia artistici che gestionali.

Il Ghirlandaio, nella seconda metà del Quattrocento, incarna perfettamente la mentalità che aveva fatto la fortuna di Firenze nel XIV e nel XV secolo: consapevolezza dei propri mezzi, del ruolo sociale e capacità di vivere ed interpretare lo spirito del tempo, seguendo i fondamenti dell’etica classica di civitas et familia.

Domenico Bigordi, detto per la professione del padre, il Ghirlandaio, fu artista assai reputato anche fuori Toscana. Nel 1490 un agente del Duca di Milano, parlando dei pittori fiorentini più valenti del tempo lo segnala come “buono maestro in tavola et più in muro”, mentre nel secolo successivo il Vasari lo ricorda come uno dei principali ed eccellenti maestri dell’età sua “per grandezza e la moltitudine delle opere”. La sua fama attraversò i secoli ed ancora nel 1830 il pittore francese Eugène Delacroix lo definì “il più abile maestro di Firenze”.

Nato nel 1449, svolse la sua formazione artistica presso Alessio Baldovinetti, dal quale apprese anche la pratica del mosaico e poi frequentò la poliedrica bottega del Verrocchio, dove passarono i maggiori artisti del tempo, come Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci e Perugino.

Dalla “natura fatto per esser pittore”, grazie alla piacevole vena narrativa e descrittiva, di cui era dotato, seppe immortalare la Firenze quattrocentesca, i suoi protagonisti, le sue architetture ispirate al repertorio classico, con un disegno elegante, arricchito da una pennellata fluida tecnicamente perfetta, come testimoniano gli affreschi della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella e quelli per i Sassetti nella chiesa di Santa Trinita in cui esibì le doti di ritrattista e la capacità di fondere i contenuti della cultura umanistica con la fede cristiana.

Importanti ed impegnativi furono anche i lavori da lui realizzati fuori Firenze, a Roma: la scomparsa decorazione della Biblioteca Vaticana (1475-1476), e gli affreschi della Cappella Sistina (1481-1482) oltre alle numerose tavole dipinte per Firenze, Pisa, Lucca, Rimini e Narni.

Nonostante la morte prematura avvenuta all’età di 45 anni, nel 1494, per una “febbre pestilenziale” improvvisa, si sposò due volte ed ebbe nove figli, cinque femmine e quattro maschi. Fra questi solo Ridolfo divenne pittore, mentre Bartolomeo e Antonio, furono entrambi monaci presso il convento di Santa Maria degli Angeli.

Dalla sua biografia, scritta dal Vasari, si evince che tutta la sua attività fu caratterizzata da un costante e stretto rapporto con i componenti della sua famiglia, in particolare con i fratelli minori David e Benedetto, entrambi pittori e suoi collaboratori.

David (1451-1525), oltre a dipingere, svolgeva nella bottega il ruolo di amministratore finanziario ed è quasi sempre citato nei documenti di allogagione e nei relativi pagamenti insieme al fratello maggiore che gli dette “ogni peso di spendere dicendogli, lascia lavorare a me e tu provvedi”. Domenico fu per David una vera e propria guida, come è testimoniato nella portata al catasto del 1480 del padre dei Ghirlandaio, Tommaso Bigordi, dove si sottintende la superiorità artistica del fratello maggiore affermando che David “aiuta a detto Domenicho, impara”

Ad oggi sono note solo due opere riferibili con certezza a David: la Crocifissione con la Vergine, Giovanni Evangelista e i Santi Egidio e Bernardo del Museo del Cenacolo di San Salvi, eseguita nel 1489-1490 per il monastero delle Oblate, presso Santa Maria Nuova, su incarico dello spedalingo Bernardo di Domenico della Volta e il mosaico con Madonna il Bambino e due angeli del Musée de la Renaissance di Châtau d’Ecouen, firmato e datato al 1496, commissionato da Jean de Ganay, influente uomo politico della corte di Carlo VIII.

Nella complessa produzione su tavola della bottega ghirlandaiesca, la figura artistica di David risulta ancora sfuggente e non sembra aver trovato per il momento conferme la proposta avanzata molti anni fa da Everett Fahy di riconoscerla nel gruppo di opere raccolte sotto il nome del Maestro della Madonna di Saint Louis, (Missouri), dalla tavola eponima, datata 1486.

D’altronde, Giorgio Vasari, delineando col suo consueto spirito critico la personalità di David, lo descrive come un incostante sperimentatore, attratto più che dalla pittura, da altre tecniche artistiche, come la lavorazione del vetro, del rame e particolarmente del mosaico, in cui si applicò assiduamente dopo gli anni novanta, con l’arrivo di prestigiose commissioni per Orvieto, Siena e Pistoia, che gli consentirono di esprimersi in questa tecnica, nella quale, come rimarca il biografo aretino, “s’ando stillando il cervello vanamente”. Ciò nonostante, David divenne alla morte del fratello il capobottega e finì “in compagnia di Benedetto suo fratello molte cose cominciate da esso Domenico”.

Il fratello minore Benedetto (1458-1497) pittore e miniatore, era affetto fin da giovane da problemi alla vista, per questo afferma suo padre “si medicina e attende quando può a disegnare per dipingere”. Questa malattia non gli impedì comunque di portare avanti la sua attività, visto che dal 1486 al 1493 si recò in Francia, come testimoniano le fonti e i documenti relativi alla Compagnia di San Paolo alla quale erano iscritti i fratelli Ghirlandaio.
L’unica sua opera firmata che ci è giunta è la Natività della chiesa di Nôtre Dame ad Aigueperse, in Alvernia (fig.7 nel catologo), eseguita nel 1490 per la nascita del figlio di Gilbert de Bourbon conte di Montpensier, delfino di Alvernia. Quest’ultimo aveva sposato nel 1481 Chiara Gonzaga, che gli aveva portato in dote per la Saint Chapelle di Aigueperse il San Sebastiano del Mantegna, ora al Louvre. Nel 1485 Gilbert de Bourbon era ambasciatore in Italia, e questa può essere stata l’occasione per Benedetto di allacciare i rapporti con il dignitario francese, attraverso la mediazione di qualche potente mercante fiorentino, legato da interessi commerciali alle corti d’oltralpe.

Alla Natività francese, può essere accostata la Santa Lucia, dipinta nel 1494 per la cappella del domenicano Tommaso Cortesi nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, che mostra a mio avviso, il fare pittorico di Benedetto, pur risultando pagata a David, divenuto alla morte di Domenico il capo bottega. D'altronde, nel caso di una "équipe" a carattere familiare come quella dei Ghirlandaio, l’intestazione dei pagamenti non garantisce l’autografia del dipinto. Spesso il maestro tracciava l’idea compositiva e dipingeva le teste, delegando il resto ai discepoli, oppure lasciava ai più fidati collaboratori l’intera esecuzione pittorica, sotto la sua diretta sorveglianza. Questo spiega la difficoltà della critica nel discernere le diverse mani degli artefici nelle opere prodotte dalla bottega dei Ghirlandaio e certifica dell’efficiente organizzazione del lavoro, che nonostante la presenza di numerosi collaboratori, puntava a mantenere la qualità e l’omogeneità stilistica delle opere prodotte.

Poco sappiamo del fratellastro Giovambattista, anch’egli pittore, nato nel 1466 dal secondo matrimonio del padre Tommaso Bigordi con Antonia del Puzzola. Nel 1487 condivideva la sua attività con un certo Lorenzo “detto istella” e collaborava con lo scultore Francesco di Simone Ferrucci. L’impressione è che avesse un carattere inquieto e controverso: la pecora nera della famiglia. Nel 1489, poco più che ventenne, fu condannato per tre anni al confino nel capitanato di Sarzana a Pietrasanta, per aver commesso “certis delictis turpibus”, che gli costarono la definizione di “pictorem, hominem malae conditionis vitae e famae”.

La frenetica attività di frescanti impediva ai Ghirlandaio di risiedere stabilmente a Firenze, dove solo dal 1490 è documentata una loro bottega in affitto da Tedice Villani, situata sull’attuale Piazza Antinori, allora detta di San Michele Berteldi, adiacente alla bottega dell’architetto-legnaiolo Baccio d’Agnolo, con il quale costituirono una compagnia commerciale, collaborando in diverse occasioni.

Fra gli aiutanti del Ghirlandaio il più fedele fu il cognato, il pittore Bastiano Mainardi da San Gimignano (1466 - 1513), marito della sorellastra Alessandra. Il collaboratore più assiduo e riconoscibile fu Bartolomeo di Giovanni (doc. dal 1488-1501), artista specializzato in composizioni di piccolo formato, che collaborò in più occasioni con Domenico, in particolare nella predella della tavola con la Madonna in trono e i Santi Dionigi, Domenico, Clemente e Tommaso d’Aquino, commissionata nel 1481 da Dionigi di Chimenti per la chiesa di san Marco, ora agli Uffizi e nella tavola per la chiesa dell’Ospedale degli Innocenti, dove dipinse la Strage degli Innocenti sullo sfondo e nel 1488 la predella. Di questo artefice si presenta in mostra due pilastrini raffiguranti l’Annunciazione e Santi della Galleria dell’Accademia di Firenze, parte della carpenteria di una tavola non ancora identificata.

Fra i numerosi artisti che frequentarono la bottega del Ghirlandaio, oltre ai nomi ancora senza quadri, come Niccolò Cieco, Jacopo dell’Indaco, Jacopo del Tedesco, Baldino Baldinelli, Poggio Poggini, Giovanni d’Antonio, detto lo Scheggia, possiamo annoverare fra i più noti Michelangelo Buonarroti, che vi svolse il suo apprendistato artistico, Giuliano Bugiardini e Francesco Granacci, del quale si espone l’Ingresso di Carlo VIII in Firenze degli Uffizi, che rappresenta un evento storico risalente al 1494, ma che fu probabilmente realizzato intorno al 1515-1520.

I Ghirlandaio abitavano a Firenze nell’attuale via dell’Ariento, vicino ad un’antica osteria nota come la Cella di Ciardo e risultano inurbati fin dalla prima metà del Quattrocento. I loro avi intrattenevano da tempo rapporti con una parte di territorio del contado che oggi si identifica con il moderno comune di Scandicci, situato a Sud di Firenze.

I Ghirlandaio instaurarono con questi luoghi un legame affettivo destinato a durare nel tempo, motivazione che ha spinto il comune di Scandicci a dedicare una mostra a questa illustre famiglia di pittori del Rinascimento, allestendola presso il Castello dell’Acciaiolo, storica residenza situata nel centro della città, appartenuta ai Rucellai e poi dal 1546 agli Acciaioli, dai quali prende il nome. La mostra include anche la sede abbaziale di Settimo, dove è visibile il nucleo delle opere del Ghirlandaio e della sua bottega già in loco, ed alcune parrocchie del territorio, dove per motivi conservativi sono rimasti e saranno visibili alcuni dipinti inclusi in catalogo.

Fin dal 1442 il nonno di Domenico Ghirlandaio possedeva un terreno nel popolo di San Martino a Scandicci. Nei pressi di questa chiesa, di vetusta fondazione, situata sul colle che domina la vallata attuale, sorgeva un tempo l’antico castello, che ha dato la denominazione al moderno centro abitato. I terreni dei Ghirlandaio erano localizzati a Broncigliano, piccola frazione dell’odierno comune, caratterizzata dall’omonima villa, posta ai piedi della località nota come Scandicci Alto. Questo terreno, sul quale i Ghirlandaio fecero costruire una casa da lavoratore, resterà per lungo tempo proprietà della famiglia, come ricorda anche Tommaso Bigordi, padre di Domenico, nella sua dichiarazione al fisco nel 1480: “un mezo poderuzzo chon 1⁄2 chasa da lavoratore, posto nel popolo di San Martino a Schandicci, pievere di Giogholi, luogo detto Broncigliano…”.

I Ghirlandaio ebbero dunque occasione di frequentare le principali località oggi incluse nel territorio comunale di Scandicci, lasciando segni evidenti del loro passaggio.

I monaci della prestigiosa abbazia cistercense di Salvatore e San Lorenzo a Settimo, che rappresentò nel corso dei secoli un importante centro propulsore religioso e culturale di livello europeo, commissionarono nel 1479 tre tavole a Domenico Ghirlandaio, destinate alla loro chiesa. Una raffigurante la Deposizione di Cristo nel sepolcro, con la Vergine, Giuseppe d’Arimatea, i Santi Giovanni Evangelista, Gerolamo e Gregorio e un'altra con l’Adorazione dei Magi e San Benedetto, rispettivamente destinate agli altari intitolati a San Gregorio ed a San Benedetto. In origine entrambe collocate nel tramezzo della chiesa, dove le vide il Vasari, sono ora conservate nella sagrestia, inquadrate da cornici in stucco, frutto di una sistemazione settecentesca, insieme alla Deposizione con la Vergine, Giuseppe d’Arimatea e i Santi Maddalena, Bernardo di Chiaravalle e Quintino, dipinta circa negli stessi anni da Francesco Botticini, forse per un altro altare intitolato a questi ultimi due santi, strettamente legati all’abbazia

Perduta è la terza tavola dipinta dal Ghirlandaio, quella dedicata a San Niccolò, che forse non era più in loco già ai tempi del Vasari. Probabilmente queste tavole facevano parte di un complesso programma decorativo, destinato alla zona presbiteriale della chiesa, che si andava rinnovando a partire dagli anni sessanta del XV secolo, con la creazione di nuovi altari, corredati da dipinti raffiguranti i fatti salienti della vita di Cristo, il Salvatore, titolare dell’abbazia, accompagnati dai santi principali legati all’ordine cistercense. Le due tavole superstiti, pagate a Domenico, sono chiaramente eseguite dalla bottega, che parte della critica identifica, almeno per quanto riguarda la Deposizione nel Sepolcro col fratello David.

E’ possibile che il progetto decorativo del tramezzo fosse stato suggerito ai monaci da alcuni importanti benefattori dell’abbazia come Filippo di Ubertino Peruzzi o da illustri prelati, come il cistercense Bernardo della Volta, riformatore dell’ordine, monaco presso Settimo, poi dal 1471 abate del monastero di San Bartolomeo a Ferrara e spedalingo di Santa Maria Nuova dal 1485 al 1497, che commissionò a David la Crocifissione e santi, ora al Museo del Cenacolo di San Salvi.

Il rapporto dei Ghirlandaio con l’abbazia di Settimo continuò anche nel decennio successivo. Nel 1484 Domenico e David dipinsero su commissione dei monaci alcuni affreschi periti nella cappella maggiore del monastero del Cestello, dipendenza fiorentina dall’Abbazia della Piana. Tre anni dopo Domenico affrescò la facciata della cappella maggiore della chiesa di Settimo, purtroppo quasi completamente perduta. Sono sopravvissuti solo due frammenti raffiguranti entro medaglioni l’Angelo e l’Annunciata ai lati dell’arcone centrale. Le indagini ed i restauri effettuati nel corso del tempo non hanno rinvenuto traccia degli affreschi scomparsi in occasione delle trasformazioni tardo barocche, dei quali non conosciamo il soggetto principale. I lacerti superstiti non consentono purtroppo di immaginare la qualità e l’importanza dell’impresa per la quale i monaci imposero al Ghirlandaio l’autografia delle teste.

La quantità d’azzurro che fu impiegata negli affreschi, venne grattata dalla cappella di San Jacopo, dipinta nel 1315 dal pittore fiorentino Buffalmacco per la famiglia Spini nella Badia, un’opera che oggi appare, forse anche per questo, molto compromessa. Per i lavori eseguiti presso l’abbazia Domenico venne pagato dai monaci 50 ducati e ricevette anche compensi in natura: grano, vino e legna.

La cappella maggiore, vista la dedicazione della chiesa, doveva essere intitolata al Salvatore, di conseguenza si può supporre che forse proprio qui Domenico abbia sperimentato per la prima volta la composizione con il Cristo in Gloria circondato dai santi, un’invenzione iconografica analoga a quella che vediamo nella tavola dipinta dal Ghirlandaio e dalla bottega nel 1492 su incarico dell’abate camaldolese Giusto Buonvicini, per il monastero intitolato ai Santi Salvatore e Giusto di Volterra, ora nella Pinacoteca Comunale.

Nello stesso tempo in cui il Ghirlandaio lavorava alla cappella maggiore, affrescò sempre nella Badia di Settimo, un'altra scena nel chiostro dei Melaranci, con un Cristo Crocifisso che si stacca dalla croce per abbracciare il genuflesso San Bernardo. Anch’essa perita, doveva mostrare una composizione non molto diversa dal dipinto del medesimo soggetto eseguito da un seguace del Perugino (Sperandio di Giovanni?) per la chiesa cistercense del Cestello, affiliata all’abbazia di Settimo.

Ancora agli inizi degli anni novanta il Ghirlandaio e la sua bottega saranno impegnati nel monastero cistercense del Cestello, dipingendo la tavola per l’altare della Cappella di Lorenzo Tornabuoni, identificabile con la Visitazione del Louvre e la tavola per la famiglia Boni con Santi Stefano, Jacopo e Pietro, ora alla Galleria dell’Accademia di Firenze, opera di notevole qualità stilistica e compositiva solo recentemente restituita a Domenico, databile fra il 1492 e il 1494.

Anche il figlio di Domenico, Ridolfo, lavorerà intorno al 1512 per Francesco di Chirico Pepi nella medesima chiesa, dove più tardi per i da Romena sarà attivo anche il suo allievo Domenico Puligo, che “rimase con lui per molti anni”. Quest’ultimo artefice, del quale si espone la Maddalena della Galleria Palatina, lavorò come ricorda il Vasari per la Badia di Settimo, nel chiostro, affrescando probabilmente più lunette con ”Il Conte Ugo che fa sette Badie”, dipingendo anche una tavola forse destinata alla cappella di San Quintino, identificabile con la Madonna col Bambino in trono, con i Santi Quintino, Placido e angeli ora al Ringling Museum di Saratosa, databile alla prima metà del secondo decennio del XVI secolo.

Il rapporto con l’Abbazia di Settimo e il suo territorio circostante segnò fin dai primi anni anche la vita del figlio di Domenico, Ridolfo, che della sua numerosa prole fu l’unico a seguire la professione paterna, divenendo un famoso pittore, un talento precoce che “ne sapea già tanto a giudizio de’ migliori”. Giovane “di bell’ingegno”, nacque nel 1483 e venne dato, non per caso, a balia ad Anna d’Antonio, una donna che abitava a Settimo. Ridolfo fu dunque allevato all’aria umida e a quel tempo poco salubre della Piana. Ci tramandano infatti alcuni documenti segnalati da Gaetano Milanesi, che nel 1484, quando non aveva ancora due anni, si ammalò gravemente di “pondi”, una violenta forma di dissenteria allora molto diffusa. Da Settimo la balia lo portò in condizioni disperate a Firenze dai genitori, che fecero subito un voto al Santuario di Santa Maria delle Carceri a Prato e di lì a poco il piccolo Ridolfo miracolosamente guarì, come il Fanciullo resuscitato da San Zanobi, dipinto più tardi, nel 1516-1517 dallo stesso Ridolfo nella tavola ora alla Galleria dell’Accademia.

Undicenne alla morte del padre, “fugli messo a esercitare la pittura e datogli ogni comodità di studiare dal zio” David che “ringraziava dio di essere vivuto, che vedea la virtù di Domenico quasi risorgere in Ridolfo”. Quest’ultimo, legittimo erede della bottega familiare, rimase a fianco dello zio che consapevole dell’abilità del giovane nipote, lo mandò presto a far “buona pratica della pittura” da Fra Bartolomeo, maestro a quel tempo assai reputato, che peraltro a sua volta in gioventù aveva frequentato la bottega di Domenico.

David era il capobottega e teneva probabilmente i rapporti con la clientela, delegando spesso al nipote l’esecuzione delle opere. Questo avvenne per il tondo con i Santi Pietro e Paolo ora alla della Galleria Palatina. Destinato alla camera del Gonfaloniere di Palazzo Vecchio, dipinto da Ridolfo, fu pagato a David nel 1503. Lo stesso si verificò nel 1507 con la Madonna della Cintola della cattedrale di Prato.

Il sodalizio fra i due parenti era sicuramente ancora stabile ed attivo nel 1508, come certificano alcuni documenti pratesi relativi alla commissione di una pala d’altare assegnata ad entrambi, ma poi declinata. Anche la lunetta a mosaico del portale esterno della Santissima Annunziata, affidata a David nel 1510, venne poi dipinta, secondo l’asserzione vasariana, dal nipote entro il 1513, anno in cui l’anziano Ghirlandaio fece testamento. In quell’occasione deve essere avvenuto il passaggio di consegna della bottega da David, che morirà nel 1525, al nipote, che riportò in auge l’officina paterna, tenendola ancora aperta per quasi mezzo secolo.

I Ghirlandaio continuarono a mantenere un costante rapporto con il territorio di Scandicci conservando la casa e il terreno dell’avo presso San Martino, suggellando ulteriormente questo legame con l’acquisto da parte di Domenico, fra il 1480 e il 1490, di una casa situata nei pressi di Santa Maria a Colleramole.

Questa antichissima parrocchia, ora inclusa nel comune d’Impruneta, al confine con Scandicci, era in antico una delle chiese affiliate alla pieve di Sant’Alessandro a Giogoli. La casa dei Ghirlandaio esiste tutt’oggi ed è identificabile nell’attuale villa Agostini a Colleramole, dove una lapide posta all’esterno dell’edificio, ne ricorda l’appartenenza alla prestigiosa famiglia di pittori.

All’interno si custodisce la suggestiva cappellina, interamente affrescata da Ridolfo. Nel tabernacolo sopra l’altare sono dipinti la Madonna e il Bambino fra i Santi Domenico e Benedetto, sovrastati da un fastigio con due angeli sostenenti ghirlande, figura dello stemma che i Bigordi assunsero, quando presero il soprannome di “Grillandai”. Ai lati dentro nicchie sono raffigurate la Fede e la Speranza, mentre sulla parete laterale sinistra si può riconoscere l’autoritratto di Ridolfo con il figlio Domenico e il ritratto del padre Domenico. Nella parete destra, ormai quasi illeggibile, erano ritratte la moglie di Ridolfo Contessina Del Bianco Deti e le figlie Costanza e Margherita. La cappella è ricordata nel 1606 1607 come “posta nel popolo di San Christofano a Viciano piviere di Giogoli, dove era in tabernaculo dipintovi una Madonna con più santi di mano del Grillandaio Vecchio”.

Non si può infatti escludere che il primo ad iniziare l’opera sia stato proprio Domenico, anche se i caratteri stilistici sono chiaramente imputabili al figlio. Le date di nascita dei figli di Ridolfo effigiati nella cappella, consentono di avanzare una datazione degli affreschi intorno al 1515 - 1516. La scelta dei santi raffigurati ai lati della Vergine, omonimi del padre e dello zio, entrambi a quel tempo defunti, dimostra la volontà di Ridolfo di omaggiare i suoi più stretti parenti.

Prima di entrare in possesso dei Ghirlandaio questa abitazione era proprietà dei del Puzzola, una famiglia originaria di queste zone, alla quale apparteneva anche la matrigna di Domenico, che suo padre Tommaso aveva sposato in secondo nozze. Residenza estiva dei Ghirlandaio fu abitata da Ridolfo fino alla sua morte avvenuta nel 1561e venne poi venduta dai suoi figli. Questa zona del contato fiorentino fu dunque frequentata abitualmente da Ridolfo, che lasciò diversi segni del suo passaggio attraverso le opere, alcune ancora presenti sul territorio.

Fin dagli esordi, nel 1503 all’età di vent’anni, dipinse per la chiesa di Sant’Andrea a Mosciano, una delle più significative emergenze artistiche e architettoniche del comune di Scandicci, una bella tavola raffigurante la Vergine seduta all’aperto in mezzo al paesaggio, circondata da San Francesco in lettura e dalla Maddalena. La tavola è ricordata all’altare della Compagnia del Santissimo Sacramento di Mosciano nel 1689, ma non sappiamo con certezza se fosse fin dall’origine destinata alla cappella della compagnia o ad un altro altare nella chiesa. La chiesa di Mosciano, patronato della famiglia Trinciavelli ebbe infatti una storia molto movimentata e dal 1455 al 1763 fu unita al Monastero di San Donato a Scopeto dell’ordine dei canonici regolari di Sant’Agostino.

Nel volto del San Francesco assorto nella lettura, probabilmente un ritratto, sembra celarsi l’identità del committente, forse un canonico appartenente ad un illustre famiglia legata al territorio, che rivestì in quegli anni l’incarico di priore commendatario o cappellano della chiesa di Sant’Andrea. Nel paesaggio apparentemente di fantasia che inquadra la scena, si può tentare di riconoscere a sinistra una veduta di Firenze, forse la porta Romana, fuori della quale sorgeva il monastero di Scopeto, mentre a destra il gruppo di edifici con torre, raggiungibile dalla strada che s’inerpica su una altura, potrebbe alludere a Mosciano, antico borgo delle colline a Sud di Firenze.

Pochi anni dopo, intorno al 1506, Ridolfo è di nuovo presente sul territorio di Scandicci, dove nei pressi della Pieve di Sant’Alessandro a Giogoli, sulla via Volterrana, nelle vicinanze della sua abitazione, eseguì un tabernacolo, ora staccato e ridotto ad un lacerto. Ricordato dal Vasari, raffigurava la Madonna col Bambino accompagnata da due angeli ed è esposto in mostra per il suo valore di testimonianza storica. (Immagine a destra)

L’importanza e la ricchezza della pieve di Sant’Alessandro nel corso dei secoli, sono attestate dai titoli e dai privilegi rilasciati dal Papa e dalle numerose chiese del territorio da essa dipendenti. Il tabernacolo della Volterrana fu probabilmente commissionato a Ridolfo da Giovan Battista Bonciani, allora pievano di Giogoli: illustre personaggio che fu maestro e auditore del Cardinale Giovanni de’ Medici - poi Papa Leone X - divenne vescovo di Caserta nel 1514 e poi vice datario di Papa Clemente VII.

Le conoscenze e i rapporti instaurati nel corso del tempo dai Ghirlandaio con i monaci cistercensi della Badia di Settimo, spinsero anche Ridolfo a prestare la sua opera per alcune importanti chiese situate nel territorio di Scandicci, storicamente legate alla potente abbazia locale. A San Colombano a Settimo ci resta infatti una sua graziosa tavola centinata raffigurante la Madonna col Bambino, recentemente restaurata è visibile presso la chiesa dove è stata ricollocata. L’opera era forse destinata alla compagnia intitolata alla Vergine che fin dal XIII secolo si adunava presso la chiesa. Il culto mariano era fortemente sentito nel contado fiorentino e Ridolfo lavorerà in più di un’occasione per questi sodalizi laicali, con i quali, visto la sua assidua presenza sul territorio, doveva intrattenere frequenti rapporti.

A San Martino alla Palma, come ricorda il Vasari, Ridolfo dipinse insieme al suo più fedele discepolo Michele Tosini, detto Michele di Ridolfo per la lunga collaborazione e per l’amicizia che lo legava al suo maestro, una Assunta fra i Santi Zanobi, il Battista, Sebastiano, Benedetto, ora visibile in sagrestia, destinata alla cappella della Compagnia laicale adiacente alla chiesa, intitolata alla Vergine che si iniziò a costruire a partire dal 1542. Non è presente in mostra a causa del precario stato conservativo, che richiederà per il suo recupero un lungo e complesso restauro. Peraltro, il dipinto che esprime per la presenza dei due confratelli incappucciati uno spontaneo e partecipe sentimento di religiosità popolare, aveva denunciato l’instabilità della superficie pittorica fin dal 1721, quando venne ritoccato dal pittore Giovanni Francesco Solfanelli.

Un’altra opera con caratteri stilistici assai vicino alla pittura di Ridolfo si custodisce nella moderna chiesa di San Bartolomeo in Tuto, nel cuore di Scandicci, prossima al castello dell’Acciaiolo. Proveniente dall’antica chiesa di San Bartolo, dipendente fin dal X secolo dalla Badia fiorentina, raffigura la Pietà fra i Santi, Giovanni Evangelista, Sebastiano, Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo, Agata e Maddalena ed è attribuita al Maestro del Compianto di Scandicci, così battezzato da Everett Fahy nel 1976.
Questo artefice, affine a Ridolfo e Francesco Granacci, si ispira nella composizione al Compianto del Perugino per Santa Chiara, ora alla Galleria Palatina. Destinata all’altare di San Sebastiano nella chiesa di San Bartolo in Tuto, la tavola uscì probabilmente da una delle botteghe di pittura appartenenti alla Badia Fiorentina agli inizi del secondo decennio del XVI secolo, forse da quella di Francesco Forzetti detto il Dolzemele, un pittore decoratore che collaborò con Perugino, Ridolfo e Granacci, gli stessi referenti del linguaggio pittorico dell’anonimo maestro. L’opera non è esposta al Castello dell’Acciaiolo, ma è visibile nella moderna chiesa di San Bartolomeo, dove si custodisce anche la Madonna col Bambino di Giovanni da Milano, raro capolavoro di pittura trecentesca.

Ridolfo durante la sua vita lavorò in molti luoghi di Firenze e della Toscana instaurando rapporti privilegiati con personaggi in vista nella società del tempo. Grazie alle relazioni di amicizia con la famiglia Antinori, benefattrice del monastero di San Jacopo di Ripoli, dipinse per questo luogo diverse opere, fra cui nel 1504 Incoronazione della Vergine ora al Musée du Petit Palais di Avignone e lo Sposalizio di Santa Caterina e santi del 1525 - 1530 circa, già al Conservatorio delle Montalve, ora presso il Rettorato di Piazza San Marco a Firenze, in collaborazione con il suo più fedele discepolo Michele Tosini. Della bottega di Michele di Ridolfo si espone anche la Sacra Famiglia, degli Uffizi (Depositi) riferita a Francesco Brina.

Ridolfo ebbe incarichi prestigiosi in Firenze, lavorò per l’Opera del Duomo e per Palazzo Vecchio, in particolare affrescò in collaborazione con Andrea di Cosimo Feltrini la Cappella dei Priori, mentre per lo spedalingo di Santa Maria Nuova Leonardo Buonafede, realizzò nell’arco di un trentennio almeno nove pale d’altare per le cappelle di suo patronato e per le dipendenze dell’antico ospedale.

I dipinti degli esordi e della prima maturità mostrano uno spirito arcaizzante in linea con la tradizione familiare, con un occhio attento alla rappresentazione topografica del paesaggio ed agli scorci cittadini descritti nelle storie del Bigallo, in quelle di San Zanobi della Galleria dell’Accademia e nel ritratto della cosiddetta Monaca degli Uffizi, opere che fanno di lui un illustratore della Firenze del tempo. Copiò il cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo e fu amico di Raffaello e restaurò probabilmente insieme al suo discepolo Michele Tosini la Madonna del Cardellino. Realizzò numerosi ritratti, dimostrando abilità in questo genere di pittura, come può vedersi nel Ritratto di uomo con berretto dei depositi degli Uffizi e nel più celebre Ritratto di Cosimo I de' Medici in età giovanile degli Uffizi, ricordato anche dal Vasari, databile al 1531.

La sua bottega tenne alto il nome dei Ghirlandaio per buona parte del XVI secolo riscuotendo anche una certa risonanza internazionale, probabilmente grazie anche ai rapporti già avviati dagli zii, specialmente con la Francia. Nel 1510 Ridolfo firmò una bella tavola con l’Adorazione dei Pastori con i santi Sebastiano e Rocco, ora a Budapest (Szépmüveszeti Muzéum), probabilmente destinata ad una cappella della cattedrale di Basilea su commissione dello stampatore tedesco Giovanni Petri, uno dei primi pionieri dei caratteri mobili in Italia, che aveva frequentato la famosa stamperia del monastero di San Jacopo di Ripoli." (Nell'mmagine di seguito, dalla descrizione di Ridolfo nel particolare nel dipinto la Monaca degli Uffizi)

"Più tardi, come ricorda il Vasari, fece eseguire dai numerosi discepoli che frequentarono il suo laboratorio, dipinti che furono inviati in diverse nazioni europee, in “Inghilterra, nell’Alemagna ed in Ispagna” ed alcuni suoi discepoli, come Bartolomeo Ghetti e il Nunziata, si recarono a lavorare presso le corti Europee.

Ridolfo visse 78 anni e morì nel 1561, si sposò due volte ed ebbe 15 figli e continuò la tradizione paterna con quello spirito collaborativo, che aveva caratterizzato la famiglia Ghirlandaio, tenendo aperta per molti anni in Firenze un’importante bottega, dove si produceva di tutto: dipinti, stendardi, apparati per feste e cerimonie. Racconta sempre il Vasari di Ridolfo: “ quello che in lui mi piace sommamente, oltre all’essere egli veramente uomo da bene, costumato e timorato di Dio, si che ha sempre in bottega buon numero di giovinetti, ai quali insegna con incredibile amorevolezza”. Numerosi furono infatti i suoi discepoli: il già citato Michele di Ridolfo, Mariano da Pescia, Perin del Vaga, Battista Franco, Carlo Portelli, Antonio del Ceraiolo, Domenico Puligo.

Durante la sua vita Ridolfo del Ghirlandaio non abbandonò mai Firenze, nonostante l’insistenza del pittore Raffaello Sanzio, suo caro amico, che lo voleva a Roma. Non volle mai perdere la cupola di veduta e rimase sempre nella sua città, continuando a frequentare i luoghi del contado fiorentino, ai quali la sua famiglia era da tempo legata."

- "Ghirlandaio. Una famiglia di pittori del Rinascimento tra Firenze e Scandicci" mostra allestita al Castello dell'Acciaiolo di Scandicci, Firenze.
- " Familia et civitas: i Ghirlandaio e Scandicci" il saggio della curatrice della mostra Annamaria Bernacchioni
- Ritorno della Madonna col Bambino al Museo di S. Martino a Gangalandi
-Il Mercante, l'Ospedale, i Fanciulli - La donazione di Francesco Datini
Santa Maria Nuova e la fondazione degli Innocenti.


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Pagina pubblicata il 11-2010 - Aggiornato il 09-Lug-2016