Mostre a Firenze: "Ghirlandaio.
Una famiglia di pittori del Rinascimento
tra Firenze e Scandicci"
Familia et civitas: i Ghirlandaio e Scandicci.
Saggio di Annamaria Bernacchioni

©www.zoomedia.it vanna innocenti 19 novembre
2010
Nell'immagine una sala della mostra: "Ghirlandaio.
Una famiglia di pittori del Rinascimento tra Firenze e Scandicci" nel Castello
dell'Acciaiolo di Scandicci a Firenze.
In primo piano, sulla destra della foto si vede l'opera di David Ghirlandaio
"Crocifissione con la Vergine e i santi Giovanni Evangelista, Maddalena,
Egidio e Bernardo
di Chiaravalle" dipinta tra il 1489 e il 1490, fu commissionato
dall'Ospedale di Santa Maria Nuova per le Oblate, l'affresco staccato
proviene alla mostra
dal Cenacolo di Andrea del
Sarto dov'è conservato.
Familia et civitas: i Ghirlandaio e Scandicci
Saggio di Annamaria Bernacchioni
"I maestri
protagonisti del Rinascimento artistico fiorentino si caratterizzano per
la loro opera, per la loro psicologia e per il diverso modo di porsi nei
confronti della società e della cultura del proprio tempo.
Seguendo
consuete definizioni di matrice vasariana, possiamo ricordare Beato Angelico
come l’artista devoto che aspira alla massima perfezione, diversamente
dalla sua antitesi Filippo Lippi, creativo e al tempo stesso libertino,
isolato e ipocondriaco invece Paolo Uccello, vittima delle sue elucubrazioni
prospettiche,
ancor più complicati e fecondi i geni Michelangelo e Leonardo: il
primo travagliato dal pensiero filosofico e religioso, l’altro, vivace
sperimentatore sempre pronto alla sfida con la natura e la comprensione
delle sue regole.
Quando si affronta un pittore come Domenico Ghirlandaio ci si allontana
immediatamente dalle complesse implicazioni intellettuali di questi artefici
e si vede in
lui il principale “illustratore” dell’epoca di Lorenzo
il Magnifico, colui che meglio di ogni altro seppe ricostruire gli spazi
della
scena rinascimentale, descrivendo con dovizia di particolari gli attori
protagonisti di quella civiltà. Fu un abile professionista, in
cui arte e tecnica si fusero mirabilmente con l’attitudine imprenditoriale,
attraverso l’operosità di
una ben strutturata bottega a carattere familiare, dove ciascuno svolgeva
i propri compiti, sia artistici che gestionali.
Il Ghirlandaio, nella
seconda metà del Quattrocento, incarna perfettamente
la mentalità che aveva fatto la fortuna di Firenze nel
XIV e nel XV secolo: consapevolezza dei propri mezzi, del ruolo sociale e
capacità di
vivere ed interpretare lo spirito del tempo, seguendo i fondamenti
dell’etica
classica di civitas et familia.
Domenico Bigordi, detto per la professione
del padre, il Ghirlandaio, fu artista assai reputato anche fuori
Toscana. Nel 1490 un agente del
Duca
di Milano,
parlando dei pittori fiorentini più valenti del tempo lo segnala
come “buono
maestro in tavola et più in muro”, mentre nel secolo
successivo il Vasari lo ricorda come uno dei principali ed eccellenti
maestri
dell’età sua “per
grandezza e la moltitudine delle opere”. La sua fama attraversò i
secoli ed ancora nel 1830 il pittore francese Eugène Delacroix lo definì “il
più abile maestro di Firenze”.
Nato nel 1449, svolse
la sua formazione artistica presso Alessio Baldovinetti, dal quale
apprese anche la pratica del mosaico e poi
frequentò la poliedrica
bottega del Verrocchio, dove passarono i maggiori artisti del tempo,
come Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci e Perugino.
Dalla “natura
fatto per esser pittore”, grazie alla piacevole vena
narrativa e descrittiva, di cui era dotato, seppe immortalare
la Firenze quattrocentesca, i suoi protagonisti, le sue architetture
ispirate al repertorio classico, con
un disegno elegante, arricchito da una pennellata fluida tecnicamente
perfetta, come testimoniano gli affreschi della Cappella
Tornabuoni in Santa Maria Novella
e quelli per i Sassetti nella chiesa di Santa Trinita in
cui esibì le
doti di ritrattista e la capacità di fondere i contenuti
della cultura umanistica con la fede cristiana.
Importanti ed
impegnativi furono anche i lavori da lui realizzati fuori Firenze,
a Roma: la scomparsa decorazione della Biblioteca
Vaticana (1475-1476), e
gli affreschi della Cappella Sistina (1481-1482) oltre alle
numerose tavole dipinte
per Firenze, Pisa, Lucca, Rimini e Narni.
Nonostante la morte
prematura avvenuta all’età di 45 anni,
nel 1494, per una “febbre pestilenziale” improvvisa, si sposò due
volte ed ebbe nove figli, cinque femmine e quattro maschi. Fra questi
solo Ridolfo divenne pittore, mentre Bartolomeo e Antonio, furono entrambi
monaci
presso il convento di Santa Maria degli Angeli.
Dalla sua biografia, scritta
dal Vasari, si evince che tutta la sua attività fu
caratterizzata da un costante e stretto rapporto con i componenti della
sua famiglia, in particolare con i fratelli minori David e Benedetto,
entrambi
pittori e suoi collaboratori.
David (1451-1525), oltre a dipingere, svolgeva
nella bottega il ruolo di amministratore finanziario ed è quasi
sempre citato nei documenti di allogagione e nei relativi pagamenti
insieme al fratello maggiore che gli dette “ogni
peso di spendere dicendogli, lascia lavorare a me e tu provvedi”.
Domenico fu per David una vera e propria guida, come è testimoniato
nella portata al catasto del 1480 del padre dei Ghirlandaio, Tommaso
Bigordi, dove si sottintende
la superiorità artistica del fratello maggiore affermando che
David “aiuta
a detto Domenicho, impara”
Ad oggi sono note solo due opere riferibili
con certezza a David: la Crocifissione con la Vergine, Giovanni
Evangelista e i Santi Egidio e
Bernardo del Museo
del Cenacolo di San Salvi, eseguita nel 1489-1490 per il monastero
delle Oblate, presso Santa Maria Nuova, su incarico dello spedalingo Bernardo
di Domenico
della Volta e il mosaico con Madonna il Bambino e due angeli del
Musée
de la Renaissance di Châtau d’Ecouen, firmato e datato
al 1496, commissionato da Jean de Ganay, influente uomo politico della
corte
di Carlo
VIII.
Nella complessa produzione su tavola della bottega ghirlandaiesca,
la figura artistica di David risulta ancora sfuggente e non sembra
aver
trovato per
il momento conferme la proposta avanzata molti anni fa da Everett
Fahy di riconoscerla
nel gruppo di opere raccolte sotto il nome del Maestro della Madonna
di Saint Louis, (Missouri), dalla tavola eponima, datata 1486.
D’altronde,
Giorgio Vasari, delineando col suo consueto spirito critico la
personalità di
David, lo descrive come un incostante sperimentatore, attratto
più che
dalla pittura, da altre tecniche artistiche, come la lavorazione
del vetro, del rame e particolarmente del mosaico, in cui si applicò assiduamente
dopo gli anni novanta, con l’arrivo di prestigiose commissioni
per Orvieto, Siena e Pistoia, che gli consentirono di esprimersi
in questa tecnica, nella
quale, come rimarca il biografo aretino, “s’ando stillando
il cervello vanamente”. Ciò nonostante, David divenne
alla morte del fratello il capobottega e finì “in
compagnia di Benedetto suo fratello molte cose cominciate da esso
Domenico”.
Il fratello minore Benedetto (1458-1497) pittore
e miniatore, era affetto fin da giovane da problemi alla vista,
per questo afferma
suo padre “si medicina
e attende quando può a disegnare per dipingere”. Questa
malattia non gli impedì comunque di portare avanti la sua
attività, visto
che dal 1486 al 1493 si recò in Francia, come testimoniano
le fonti e i documenti relativi alla Compagnia di San Paolo alla
quale erano iscritti
i fratelli Ghirlandaio.
L’unica sua opera firmata che ci è giunta è la Natività della
chiesa di Nôtre Dame ad Aigueperse, in Alvernia (fig.7
nel catologo), eseguita nel 1490 per la nascita del figlio di
Gilbert de Bourbon conte di Montpensier,
delfino di Alvernia. Quest’ultimo aveva sposato nel 1481
Chiara Gonzaga, che gli aveva portato in dote per la Saint Chapelle
di Aigueperse il San Sebastiano del Mantegna,
ora al Louvre. Nel 1485 Gilbert de Bourbon era ambasciatore in
Italia, e questa può essere stata l’occasione
per Benedetto di allacciare i rapporti con il dignitario francese,
attraverso la mediazione
di qualche potente mercante fiorentino, legato da interessi commerciali
alle corti d’oltralpe.
Alla Natività francese, può essere
accostata la Santa Lucia, dipinta nel 1494 per la cappella
del domenicano Tommaso Cortesi nella chiesa
di Santa Maria Novella a Firenze, che mostra a mio avviso, il
fare pittorico di Benedetto, pur risultando pagata a David, divenuto
alla morte di Domenico
il capo bottega. D'altronde, nel caso di una "équipe"
a carattere familiare come quella dei Ghirlandaio, l’intestazione
dei pagamenti non garantisce l’autografia del dipinto.
Spesso il maestro tracciava l’idea compositiva
e dipingeva le teste, delegando il resto ai discepoli, oppure
lasciava ai più fidati
collaboratori l’intera esecuzione pittorica, sotto la sua
diretta sorveglianza. Questo spiega la difficoltà della
critica nel discernere le diverse mani degli artefici nelle opere
prodotte dalla bottega dei Ghirlandaio e certifica
dell’efficiente organizzazione del lavoro, che nonostante
la presenza di numerosi collaboratori, puntava a mantenere la
qualità e l’omogeneità stilistica
delle opere prodotte.
Poco sappiamo del fratellastro Giovambattista,
anch’egli pittore, nato
nel 1466 dal secondo matrimonio del padre Tommaso Bigordi con
Antonia del Puzzola. Nel 1487 condivideva la sua attività con
un certo Lorenzo “detto
istella” e collaborava con lo scultore Francesco di Simone
Ferrucci. L’impressione è che avesse un carattere
inquieto e controverso: la pecora nera della famiglia. Nel 1489,
poco più che ventenne, fu condannato
per tre anni al confino nel capitanato di Sarzana a Pietrasanta,
per aver commesso “certis
delictis turpibus”, che gli costarono la definizione di “pictorem,
hominem malae conditionis vitae e famae”.
La frenetica attività di
frescanti impediva ai Ghirlandaio di risiedere stabilmente a
Firenze, dove solo dal 1490 è documentata una loro bottega
in affitto da Tedice Villani, situata sull’attuale Piazza
Antinori, allora detta di San Michele Berteldi, adiacente alla
bottega dell’architetto-legnaiolo
Baccio d’Agnolo, con il quale costituirono una compagnia
commerciale, collaborando in diverse occasioni.
Fra gli aiutanti
del Ghirlandaio il più fedele fu il cognato, il pittore
Bastiano Mainardi da San Gimignano (1466 - 1513),
marito della
sorellastra Alessandra. Il collaboratore più assiduo
e riconoscibile fu Bartolomeo di Giovanni (doc. dal 1488-1501),
artista specializzato in composizioni di
piccolo formato, che collaborò in più occasioni
con Domenico, in particolare nella predella della tavola con
la Madonna in trono e i Santi
Dionigi, Domenico, Clemente e Tommaso d’Aquino, commissionata
nel 1481 da Dionigi di Chimenti per la chiesa di san Marco, ora
agli Uffizi e nella
tavola per la chiesa dell’Ospedale degli Innocenti, dove
dipinse la Strage degli Innocenti sullo sfondo e nel
1488 la predella. Di questo artefice si
presenta in mostra due pilastrini raffiguranti l’Annunciazione
e Santi della Galleria dell’Accademia di Firenze,
parte della carpenteria di una tavola non ancora identificata.
Fra
i numerosi artisti che frequentarono la bottega del Ghirlandaio,
oltre ai nomi ancora senza quadri, come Niccolò Cieco,
Jacopo dell’Indaco,
Jacopo del Tedesco, Baldino Baldinelli, Poggio Poggini, Giovanni
d’Antonio,
detto lo Scheggia, possiamo annoverare fra i più noti
Michelangelo Buonarroti, che vi svolse il suo
apprendistato artistico,
Giuliano Bugiardini e Francesco
Granacci, del quale si espone l’Ingresso di
Carlo VIII in Firenze degli Uffizi, che rappresenta
un evento storico risalente al 1494, ma che fu probabilmente
realizzato intorno al 1515-1520.
I Ghirlandaio abitavano a Firenze
nell’attuale via dell’Ariento,
vicino ad un’antica osteria nota come la Cella di Ciardo
e risultano inurbati fin dalla prima metà del Quattrocento.
I loro avi intrattenevano da tempo rapporti con una parte di
territorio del contado che oggi si identifica
con il moderno comune di Scandicci, situato a Sud di Firenze.
I
Ghirlandaio instaurarono con questi luoghi un legame affettivo
destinato a durare nel tempo, motivazione che ha spinto il comune
di Scandicci
a dedicare una mostra a questa illustre famiglia di pittori del
Rinascimento, allestendola
presso il Castello
dell’Acciaiolo, storica residenza situata
nel centro della città, appartenuta ai Rucellai e poi
dal 1546 agli Acciaioli, dai quali prende il nome. La mostra
include anche la sede abbaziale di Settimo,
dove è visibile il nucleo delle opere del Ghirlandaio
e della sua bottega già in loco, ed alcune parrocchie
del territorio, dove per motivi conservativi sono rimasti e saranno
visibili alcuni dipinti inclusi in catalogo.
Fin dal 1442 il nonno
di Domenico Ghirlandaio possedeva un terreno nel popolo di San
Martino a Scandicci. Nei pressi di questa chiesa,
di vetusta
fondazione,
situata sul colle che domina la vallata attuale, sorgeva un tempo
l’antico
castello, che ha dato la denominazione al moderno centro abitato.
I terreni dei Ghirlandaio erano localizzati a Broncigliano, piccola
frazione dell’odierno
comune, caratterizzata dall’omonima villa, posta ai piedi
della località nota
come Scandicci Alto. Questo terreno, sul quale i Ghirlandaio
fecero costruire una casa da lavoratore, resterà per lungo
tempo proprietà della
famiglia, come ricorda anche Tommaso Bigordi, padre di
Domenico,
nella sua dichiarazione al fisco nel 1480: “un mezo poderuzzo
chon 1⁄2 chasa
da lavoratore, posto nel popolo di San Martino a Schandicci,
pievere di Giogholi, luogo detto Broncigliano…”.
I
Ghirlandaio ebbero dunque occasione di frequentare le principali
località oggi
incluse nel territorio comunale di Scandicci, lasciando segni
evidenti del loro passaggio.
I monaci della prestigiosa abbazia
cistercense di Salvatore e San Lorenzo a Settimo, che
rappresentò nel
corso dei secoli un importante centro propulsore religioso e
culturale di livello europeo, commissionarono nel 1479
tre tavole a Domenico Ghirlandaio, destinate alla loro chiesa.
Una raffigurante la Deposizione di Cristo nel sepolcro, con
la Vergine, Giuseppe d’Arimatea,
i Santi Giovanni Evangelista, Gerolamo e Gregorio e un'altra
con l’Adorazione
dei Magi e San Benedetto, rispettivamente destinate agli
altari intitolati a San Gregorio ed a San Benedetto. In origine
entrambe
collocate nel tramezzo
della chiesa, dove le vide il Vasari, sono ora conservate nella
sagrestia, inquadrate da cornici in stucco, frutto di una sistemazione
settecentesca,
insieme alla Deposizione con la Vergine, Giuseppe d’Arimatea
e i Santi Maddalena, Bernardo di Chiaravalle e Quintino,
dipinta circa negli stessi anni
da Francesco Botticini, forse per un altro altare intitolato
a questi ultimi due santi, strettamente legati all’abbazia
Perduta è la
terza tavola dipinta dal Ghirlandaio, quella dedicata a San Niccolò,
che forse non era più in loco già ai tempi
del Vasari. Probabilmente queste tavole facevano parte di un
complesso programma decorativo, destinato alla zona presbiteriale
della chiesa, che si andava rinnovando
a partire dagli anni sessanta del XV secolo, con la creazione
di nuovi altari, corredati da dipinti raffiguranti i fatti salienti
della vita di Cristo, il
Salvatore, titolare dell’abbazia, accompagnati dai santi
principali legati all’ordine cistercense. Le due tavole
superstiti, pagate a Domenico, sono chiaramente eseguite dalla
bottega, che parte della critica identifica,
almeno per quanto riguarda la Deposizione nel Sepolcro
col fratello David.
E’ possibile che il progetto decorativo
del tramezzo fosse stato suggerito ai monaci da alcuni importanti
benefattori dell’abbazia come Filippo
di Ubertino Peruzzi o da illustri prelati, come il cistercense
Bernardo della Volta, riformatore dell’ordine, monaco presso
Settimo, poi dal 1471 abate del monastero di San Bartolomeo a
Ferrara e spedalingo di Santa Maria Nuova
dal 1485 al 1497, che commissionò a David la Crocifissione
e santi, ora al Museo del Cenacolo di San Salvi.
Il rapporto
dei Ghirlandaio con l’abbazia di Settimo continuò anche
nel decennio successivo. Nel 1484 Domenico e David dipinsero
su commissione dei monaci alcuni affreschi periti nella cappella
maggiore del monastero del
Cestello, dipendenza fiorentina dall’Abbazia della
Piana. Tre anni dopo Domenico affrescò la facciata della
cappella maggiore della chiesa di Settimo, purtroppo quasi completamente
perduta. Sono sopravvissuti solo due
frammenti raffiguranti entro medaglioni l’Angelo e
l’Annunciata ai lati dell’arcone
centrale. Le indagini ed i restauri effettuati nel corso del
tempo non hanno rinvenuto traccia degli
affreschi scomparsi in occasione
delle trasformazioni tardo barocche, dei quali non conosciamo
il soggetto principale. I lacerti superstiti non consentono purtroppo
di immaginare la qualità e
l’importanza dell’impresa per la quale i monaci imposero
al Ghirlandaio l’autografia delle teste.
La quantità d’azzurro
che fu impiegata negli affreschi, venne grattata dalla cappella
di San Jacopo, dipinta nel 1315 dal pittore fiorentino
Buffalmacco per la famiglia Spini nella Badia, un’opera
che oggi appare, forse anche per questo, molto compromessa. Per
i lavori eseguiti presso l’abbazia
Domenico venne pagato dai monaci 50 ducati e ricevette anche
compensi in natura: grano, vino e legna.
La cappella maggiore,
vista la dedicazione della chiesa, doveva essere intitolata al
Salvatore, di conseguenza si può supporre che forse proprio
qui Domenico abbia sperimentato per la prima volta la composizione
con il Cristo in Gloria
circondato dai santi, un’invenzione iconografica analoga
a quella che vediamo nella tavola dipinta dal Ghirlandaio e dalla
bottega nel 1492 su incarico
dell’abate camaldolese Giusto Buonvicini, per il monastero
intitolato ai Santi Salvatore e Giusto di Volterra, ora nella
Pinacoteca Comunale.
Nello stesso tempo in cui il Ghirlandaio
lavorava alla cappella maggiore, affrescò sempre
nella Badia di Settimo, un'altra scena nel chiostro dei Melaranci,
con un Cristo Crocifisso che si stacca dalla croce per abbracciare
il genuflesso San Bernardo.
Anch’essa perita, doveva mostrare una composizione non
molto diversa dal dipinto del medesimo soggetto eseguito da un
seguace del Perugino (Sperandio
di Giovanni?) per la chiesa cistercense del Cestello, affiliata
all’abbazia
di Settimo.
Ancora agli inizi degli anni novanta il Ghirlandaio
e la sua bottega saranno impegnati nel monastero cistercense
del Cestello,
dipingendo
la tavola
per l’altare della Cappella di Lorenzo Tornabuoni, identificabile
con la Visitazione del Louvre e la tavola per la famiglia
Boni con Santi Stefano,
Jacopo e Pietro, ora alla Galleria dell’Accademia
di Firenze, opera di notevole qualità stilistica e compositiva
solo recentemente restituita a Domenico, databile fra il 1492
e il
1494.
Anche il figlio di Domenico, Ridolfo, lavorerà intorno
al 1512 per Francesco di Chirico Pepi nella medesima chiesa,
dove più tardi per i da Romena
sarà attivo anche il suo allievo Domenico Puligo, che “rimase
con lui per molti anni”. Quest’ultimo artefice, del
quale si espone la Maddalena della Galleria Palatina,
lavorò come
ricorda il Vasari per la Badia di Settimo, nel chiostro, affrescando
probabilmente più lunette
con ”Il Conte Ugo che fa sette Badie”, dipingendo
anche una tavola forse destinata alla cappella di San Quintino,
identificabile con la Madonna
col Bambino in trono, con i Santi Quintino, Placido e angeli ora
al Ringling Museum di Saratosa, databile alla prima metà del
secondo decennio del XVI secolo.
Il rapporto con l’Abbazia
di Settimo e il suo territorio circostante segnò fin dai
primi anni anche la vita del figlio di Domenico, Ridolfo, che
della sua numerosa prole fu l’unico a seguire la professione
paterna, divenendo un famoso pittore, un talento precoce che “ne
sapea già tanto
a giudizio de’ migliori”. Giovane “di bell’ingegno”,
nacque nel 1483 e venne dato, non per caso, a balia ad Anna d’Antonio,
una donna che abitava a Settimo. Ridolfo fu dunque allevato all’aria
umida e a quel tempo poco salubre della Piana. Ci tramandano
infatti alcuni documenti segnalati da Gaetano Milanesi, che nel
1484, quando non aveva ancora
due anni, si ammalò gravemente di “pondi”,
una violenta forma di dissenteria allora molto diffusa. Da Settimo
la balia lo portò in
condizioni disperate a Firenze dai genitori, che fecero subito
un voto al Santuario di Santa Maria delle Carceri a Prato e di
lì a poco il piccolo Ridolfo
miracolosamente guarì, come il Fanciullo resuscitato
da San Zanobi, dipinto più tardi, nel 1516-1517 dallo
stesso Ridolfo nella tavola ora alla Galleria dell’Accademia.
Undicenne
alla morte del padre, “fugli messo a esercitare la pittura
e datogli ogni comodità di studiare dal zio” David
che “ringraziava
dio di essere vivuto, che vedea la virtù di Domenico quasi
risorgere in Ridolfo”. Quest’ultimo, legittimo erede
della bottega familiare, rimase a fianco dello zio che consapevole
dell’abilità del giovane
nipote, lo mandò presto a far “buona pratica della
pittura” da
Fra Bartolomeo, maestro a quel tempo assai reputato, che peraltro
a sua volta in gioventù aveva frequentato la bottega di
Domenico.
David era il capobottega e teneva probabilmente i rapporti
con la clientela, delegando spesso al nipote l’esecuzione
delle opere. Questo avvenne per il tondo con i Santi Pietro
e Paolo ora alla della Galleria Palatina. Destinato
alla camera del Gonfaloniere di Palazzo Vecchio, dipinto da Ridolfo,
fu pagato a David nel 1503. Lo stesso si verificò nel
1507 con la Madonna della Cintola della cattedrale
di Prato.
Il sodalizio fra i due parenti era sicuramente ancora stabile
ed attivo nel 1508, come certificano alcuni documenti pratesi
relativi
alla commissione
di una pala d’altare assegnata ad entrambi, ma poi declinata.
Anche la lunetta a mosaico del portale esterno della
Santissima Annunziata, affidata a David
nel 1510, venne poi dipinta, secondo l’asserzione vasariana,
dal nipote entro il 1513, anno in cui l’anziano Ghirlandaio
fece testamento. In quell’occasione deve essere avvenuto
il passaggio di consegna della bottega da David, che morirà nel
1525, al nipote, che riportò in auge
l’officina paterna, tenendola ancora aperta per quasi mezzo
secolo.
I Ghirlandaio continuarono a mantenere un costante rapporto
con il territorio di Scandicci conservando la casa e il terreno
dell’avo presso San Martino,
suggellando ulteriormente questo legame con l’acquisto
da parte di Domenico, fra il 1480 e il 1490, di una casa situata
nei pressi di Santa Maria a Colleramole.
Questa
antichissima parrocchia, ora inclusa nel comune d’Impruneta,
al confine con Scandicci, era in antico una delle chiese affiliate
alla pieve
di Sant’Alessandro a Giogoli. La casa
dei Ghirlandaio esiste tutt’oggi
ed è identificabile nell’attuale villa Agostini
a Colleramole, dove una lapide posta all’esterno dell’edificio,
ne ricorda l’appartenenza
alla prestigiosa famiglia di pittori.
All’interno si custodisce
la suggestiva cappellina, interamente affrescata da Ridolfo.
Nel tabernacolo sopra l’altare sono dipinti la Madonna
e il Bambino fra i Santi Domenico e Benedetto, sovrastati
da un fastigio con due angeli sostenenti ghirlande, figura dello
stemma che i Bigordi assunsero,
quando presero il soprannome di “Grillandai”. Ai
lati dentro nicchie sono raffigurate la Fede e la Speranza,
mentre sulla parete laterale sinistra
si può riconoscere l’autoritratto di Ridolfo con
il figlio Domenico e il ritratto del padre Domenico. Nella parete
destra, ormai quasi illeggibile,
erano ritratte la moglie di Ridolfo Contessina Del Bianco Deti
e le figlie Costanza e Margherita. La cappella è ricordata
nel 1606 1607 come “posta
nel popolo di San Christofano a Viciano piviere di Giogoli, dove
era in tabernaculo dipintovi una Madonna con più santi
di mano del Grillandaio Vecchio”.
Non si può infatti
escludere che il primo ad iniziare l’opera
sia stato proprio Domenico, anche se i caratteri stilistici sono
chiaramente imputabili al figlio. Le date di nascita dei figli
di Ridolfo effigiati nella
cappella, consentono di avanzare una datazione degli affreschi
intorno al 1515 - 1516. La scelta dei santi raffigurati ai lati
della Vergine, omonimi del
padre e dello zio, entrambi a quel tempo defunti, dimostra la
volontà di
Ridolfo di omaggiare i suoi più stretti parenti.
Prima
di entrare in possesso dei Ghirlandaio questa abitazione era
proprietà dei del Puzzola,
una famiglia originaria di queste zone, alla quale apparteneva
anche la matrigna di Domenico, che suo padre Tommaso aveva sposato
in secondo nozze. Residenza
estiva dei Ghirlandaio fu abitata da Ridolfo fino alla sua morte
avvenuta nel 1561e venne poi venduta dai suoi figli. Questa zona
del contato fiorentino
fu dunque frequentata abitualmente da Ridolfo, che lasciò diversi
segni del suo passaggio attraverso le opere, alcune ancora presenti
sul territorio.
Fin dagli esordi, nel 1503 all’età di
vent’anni, dipinse
per la chiesa di Sant’Andrea a Mosciano,
una delle più significative
emergenze artistiche e architettoniche del comune di Scandicci,
una bella tavola raffigurante la Vergine seduta all’aperto
in mezzo al paesaggio, circondata da San Francesco in lettura
e dalla Maddalena. La tavola è ricordata
all’altare della Compagnia del Santissimo Sacramento di
Mosciano nel 1689, ma non sappiamo con certezza se fosse fin
dall’origine destinata
alla cappella della compagnia o ad un altro altare nella chiesa.
La chiesa di Mosciano, patronato della famiglia Trinciavelli
ebbe infatti una storia
molto movimentata e dal 1455 al 1763 fu unita al Monastero
di San Donato a Scopeto dell’ordine dei canonici
regolari di Sant’Agostino.
Nel volto del San Francesco assorto
nella lettura, probabilmente un ritratto, sembra celarsi l’identità del
committente, forse un canonico appartenente ad un illustre famiglia
legata al territorio, che rivestì in quegli
anni l’incarico di priore commendatario o cappellano della
chiesa di Sant’Andrea. Nel paesaggio apparentemente di
fantasia che inquadra la scena, si può tentare di riconoscere
a sinistra una veduta di Firenze, forse la porta Romana, fuori
della quale sorgeva il monastero di Scopeto, mentre
a destra il gruppo di edifici con torre, raggiungibile dalla
strada che s’inerpica
su una altura, potrebbe alludere a Mosciano, antico borgo delle
colline a Sud di Firenze.
 |
Pochi anni dopo, intorno al 1506, Ridolfo è di
nuovo presente sul territorio di Scandicci, dove nei pressi della Pieve
di Sant’Alessandro a Giogoli, sulla via Volterrana,
nelle vicinanze della sua abitazione, eseguì un tabernacolo,
ora staccato e ridotto ad un lacerto. Ricordato dal Vasari, raffigurava
la Madonna
col Bambino accompagnata da due angeli ed è esposto in
mostra per il suo valore di testimonianza storica. (Immagine a destra) |
L’importanza e la ricchezza della pieve di Sant’Alessandro
nel corso dei secoli, sono attestate dai titoli e dai privilegi rilasciati
dal
Papa e dalle numerose chiese del territorio da essa dipendenti.
Il tabernacolo della Volterrana fu probabilmente commissionato a Ridolfo
da Giovan Battista Bonciani, allora pievano di Giogoli: illustre
personaggio che fu maestro e auditore del Cardinale Giovanni
de’ Medici
- poi Papa Leone X - divenne vescovo di Caserta nel 1514 e poi
vice datario di Papa Clemente
VII.
Le conoscenze e i rapporti
instaurati nel corso del tempo dai Ghirlandaio con i monaci cistercensi
della Badia di Settimo,
spinsero anche
Ridolfo a prestare
la sua opera per alcune importanti chiese situate nel territorio
di Scandicci, storicamente legate alla potente abbazia locale.
A San Colombano
a Settimo ci resta infatti una sua graziosa
tavola centinata raffigurante la Madonna col Bambino,
recentemente restaurata è visibile
presso la chiesa dove è stata
ricollocata. L’opera era forse destinata alla compagnia
intitolata alla Vergine che fin dal XIII secolo si adunava presso
la chiesa. Il culto mariano era fortemente
sentito nel contado fiorentino e Ridolfo lavorerà in più di
un’occasione
per questi sodalizi laicali, con i quali, visto la sua assidua
presenza sul territorio, doveva intrattenere frequenti rapporti.
A
San Martino alla Palma, come ricorda il Vasari,
Ridolfo dipinse insieme al suo più fedele discepolo
Michele Tosini, detto Michele di Ridolfo per la lunga
collaborazione e per l’amicizia
che lo legava al suo maestro, una Assunta fra i Santi Zanobi,
il Battista, Sebastiano, Benedetto, ora visibile in sagrestia,
destinata alla cappella della Compagnia laicale adiacente alla
chiesa, intitolata alla
Vergine che si iniziò a
costruire a partire dal 1542. Non è presente in mostra
a causa del precario stato conservativo, che richiederà per
il suo recupero un lungo e complesso restauro. Peraltro, il dipinto
che esprime per la presenza dei due confratelli
incappucciati uno spontaneo e partecipe sentimento di religiosità popolare,
aveva denunciato l’instabilità della superficie
pittorica fin dal 1721, quando venne ritoccato dal pittore Giovanni
Francesco Solfanelli.
Un’altra opera con caratteri stilistici
assai vicino alla pittura di Ridolfo si custodisce nella moderna
chiesa di San Bartolomeo in Tuto, nel cuore
di Scandicci, prossima al castello dell’Acciaiolo. Proveniente
dall’antica
chiesa di San Bartolo, dipendente fin dal X secolo dalla
Badia fiorentina, raffigura la Pietà fra i Santi, Giovanni Evangelista,
Sebastiano, Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo, Agata e Maddalena ed è attribuita al Maestro
del Compianto di Scandicci, così battezzato da Everett
Fahy nel 1976.
Questo artefice, affine a Ridolfo e Francesco Granacci,
si ispira nella composizione al Compianto del Perugino per
Santa Chiara, ora alla Galleria
Palatina. Destinata
all’altare di San Sebastiano nella chiesa di San Bartolo
in Tuto, la tavola uscì probabilmente da una delle botteghe
di pittura appartenenti alla Badia Fiorentina agli inizi del
secondo decennio del XVI secolo, forse
da quella di Francesco Forzetti detto il Dolzemele,
un pittore decoratore che collaborò con Perugino, Ridolfo
e Granacci, gli stessi referenti del linguaggio pittorico dell’anonimo
maestro. L’opera non è esposta
al Castello dell’Acciaiolo, ma è visibile nella
moderna chiesa di San Bartolomeo, dove si custodisce anche la
Madonna col Bambino di Giovanni
da Milano, raro capolavoro di pittura trecentesca.
Ridolfo durante
la sua vita lavorò in molti luoghi di Firenze
e della Toscana instaurando rapporti privilegiati con
personaggi in vista nella società del
tempo. Grazie alle relazioni di amicizia con la famiglia Antinori,
benefattrice del monastero di San Jacopo di Ripoli,
dipinse per questo luogo diverse opere,
fra cui nel 1504 Incoronazione della Vergine ora al
Musée
du Petit Palais di Avignone e lo Sposalizio di Santa Caterina
e santi del 1525 - 1530 circa,
già al Conservatorio delle Montalve,
ora presso il Rettorato
di Piazza San Marco a Firenze, in collaborazione con
il suo più fedele
discepolo Michele Tosini. Della bottega di Michele di Ridolfo
si espone anche la Sacra
Famiglia, degli Uffizi (Depositi) riferita
a Francesco
Brina.
Ridolfo ebbe incarichi prestigiosi in Firenze, lavorò per
l’Opera del Duomo e per Palazzo Vecchio, in particolare
affrescò in
collaborazione con Andrea di Cosimo Feltrini la Cappella
dei Priori, mentre per lo spedalingo di Santa
Maria Nuova Leonardo
Buonafede, realizzò nell’arco
di un trentennio almeno nove pale d’altare per le cappelle
di suo patronato e per le dipendenze dell’antico ospedale.
I
dipinti degli esordi e della prima maturità mostrano uno
spirito arcaizzante in linea con la tradizione familiare, con
un occhio attento alla rappresentazione
topografica del paesaggio ed agli scorci cittadini descritti
nelle storie del Bigallo, in quelle di San Zanobi della Galleria
dell’Accademia e nel
ritratto della cosiddetta Monaca degli Uffizi,
opere che fanno di lui un illustratore
della Firenze del tempo. Copiò il
cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo e
fu amico
di Raffaello e restaurò probabilmente insieme
al suo discepolo Michele Tosini la Madonna
del Cardellino. Realizzò numerosi
ritratti, dimostrando abilità in questo genere di pittura,
come può vedersi
nel Ritratto di uomo con berretto dei depositi degli
Uffizi e nel più celebre Ritratto di Cosimo I de'
Medici in età giovanile degli Uffizi, ricordato anche
dal
Vasari, databile
al 1531.
La sua bottega tenne alto il nome dei Ghirlandaio per
buona parte del XVI secolo riscuotendo anche una certa risonanza
internazionale,
probabilmente
grazie
anche ai rapporti già avviati dagli zii, specialmente
con la Francia. Nel 1510 Ridolfo firmò una
bella tavola con l’Adorazione dei Pastori con i santi
Sebastiano e Rocco, ora
a Budapest (Szépmüveszeti Muzéum),
probabilmente destinata ad una cappella della cattedrale di Basilea
su commissione
dello stampatore
tedesco Giovanni Petri, uno dei primi pionieri dei caratteri
mobili in Italia, che aveva frequentato la famosa stamperia del
monastero
di San Jacopo di Ripoli." (Nell'mmagine di seguito, dalla descrizione
di Ridolfo nel particolare nel dipinto la Monaca degli Uffizi)

"Più tardi, come ricorda il
Vasari, fece eseguire dai numerosi discepoli che frequentarono
il suo laboratorio, dipinti che furono inviati in diverse
nazioni europee, in “Inghilterra, nell’Alemagna
ed in Ispagna” ed
alcuni suoi discepoli, come Bartolomeo Ghetti e il Nunziata,
si recarono a lavorare presso le corti Europee.
Ridolfo
visse 78 anni e morì nel 1561, si sposò due
volte ed ebbe 15 figli e continuò la tradizione paterna
con quello spirito collaborativo, che aveva caratterizzato la
famiglia
Ghirlandaio, tenendo aperta per molti
anni in Firenze un’importante bottega, dove si produceva
di tutto: dipinti, stendardi, apparati per feste e cerimonie.
Racconta sempre il Vasari di Ridolfo: “ quello
che in lui mi piace sommamente, oltre all’essere egli veramente
uomo da bene, costumato e timorato di Dio, si che ha sempre in
bottega buon numero
di giovinetti, ai quali insegna con incredibile amorevolezza”.
Numerosi furono infatti i suoi discepoli: il già citato
Michele di Ridolfo, Mariano da Pescia, Perin del Vaga,
Battista Franco,
Carlo Portelli, Antonio del Ceraiolo,
Domenico Puligo.
Durante la sua vita Ridolfo del Ghirlandaio
non abbandonò mai Firenze,
nonostante l’insistenza del pittore Raffaello
Sanzio, suo caro amico,
che lo voleva a Roma. Non volle mai perdere la cupola di veduta
e rimase sempre nella sua città, continuando a frequentare
i luoghi del contado fiorentino, ai quali la sua famiglia era
da tempo legata."
- "Ghirlandaio.
Una famiglia di pittori del Rinascimento tra Firenze e Scandicci" mostra
allestita al Castello
dell'Acciaiolo di
Scandicci, Firenze.
- " Familia et civitas: i Ghirlandaio e Scandicci" il
saggio della curatrice della mostra Annamaria Bernacchioni
- Ritorno
della Madonna col Bambino al Museo di S. Martino a Gangalandi
-Il
Mercante, l'Ospedale, i Fanciulli - La donazione di Francesco
Datini
Santa Maria Nuova e la fondazione degli Innocenti.
